Nel Paese dalla presidente del Consiglio donna che, a parole – solo a parole però –, afferma di voler promuovere la natalità, si scopre che per tutte le donne – tranne che per Meloni – avere figli è una vera e propria penalizzazione. E a dirlo è il presidente dell’Inps nominato da questo governo.

Si chiama Child penality e la si può misurare, lo ha fatto appunto Giuseppe Fava, presidente dell’Istituto nazionale di previdenza sociale illustrando il XXIII Rapporto 2024 che non poteva che mettere in evidenza le profonde disuguaglianze di genere che caratterizzano il mercato del lavoro e il sistema previdenziale italiano. Non solo, come è evidente la penalizzazione che si subisce nel mercato del lavoro alla nascita di un figlio, si trascina per tutta la vita lavorativa di quella madre che ne pagherà le conseguenze anche durante l’età della pensione.

La discriminazione delle madri

Tra le donne nella fascia di età tra i 20 e i 45 anni che hanno avuto un figlio tra il 2013 e il 2016 ben il 18% ha lasciato il lavoro nell’anno immediatamente successivo alla nascita. Per di più è messo nero su bianco che la probabilità di lasciare il lavoro dopo la nascita di un bimbo o una bimba aumenta per le donne, mentre diminuisce per gli uomini. E a sette anni di distanza la probabilità di lasciare il lavoro è ancora alta per le donne, il 10%, ed è doppia di quella degli uomini.

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Libertà e desideri a scartamento ridotto

Scrive Linda Laura Sabbadini, sociologa e statistica: “È una penalizzazione grave, che evidenzia a tutti gli effetti, l’esistenza di una discriminazione sul lavoro, dovuta alla maternità, che è totalmente assente per gli uomini. E agisce in tre modi. Il primo è l’interruzione del lavoro alla nascita del figlio. Il secondo, la penalizzazione economica per chi rimane al lavoro. Il terzo, l’autoesclusione da lavori troppo ‘impegnativi’ o dal lavoro in generale in caso di desiderio di avere figli.

Un commento senza appello

“Il rapporto tratteggia in modo eloquente le tante criticità della condizione delle donne nel nostro Paese”, afferma Lara Ghiglione, segretaria confederale della Cgil che denuncia “la bassa occupazione nell’età fertile, la rinuncia al lavoro a seguito della maternità, la condizione di svantaggio rispetto agli uomini dal punto vista salariale e nei percorsi di carriera, una forte discontinuità lavorativa. Come sempre denunciamo si tratta di divari causati dallo squilibrio tra carichi di famiglia e di lavoro, dall’insufficienza di servizi a sostegno della genitorialità e per la non autosufficienza, dagli scarsi investimenti per creare nuova occupazione di qualità”.

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Chi resta paga pegno

Il Rapporto conferma che l’impatto della maternità sul reddito delle donne è devastante: la perdita salariale nel primo anno di nascita del figlio può arrivare all’80%, attenuata solo grazie al congedo obbligatorio di maternità che riduce tale perdita al 30%. E ci vogliono ben tre anni a recuperare il salario che si percepiva prima della nascita di un figlio. Il salario degli uomini, invece, non diminuisce mai.

Diversi salari diverse pensioni

Ma il differenziale salariale tra lavoratori e lavoratrici persiste anche a prescindere dalla nascita dei figli. Basta il solo esser donna a far sì che si guadagli di meno: è la forza degli stereotipi. Ovviamente tale divario si trascina e forse si acuisce al momento della pensione. È sempre l’Inps ha dire che nelle regioni del Nord, come il Veneto, il Trentino-Alto Adige e la Lombardia, le pensioni percepite dalle donne sono inferiori del 30% rispetto a quelle degli uomini. Questo divario, che si riduce solo nelle aree del Sud Italia (Calabria e Sardegna), evidenzia una discriminazione sistematica legata a percorsi di carriera frammentati, part-time involontari e stipendi più bassi già durante la vita lavorativa.

Il lavoro di cura continua ad esser donna

Non solo l’accudimento di bimbi e bimbe, ma anche quello che riguarda genitori anziani o disabili è tutto o quasi sulle spalle delle donne. Nonostante l’introduzione del congedo di paternità, che ha raggiunto un 64,5% di utilizzo nel 2023, le donne continuano a essere quelle maggiormente caricate del lavoro di cura dei figli e della famiglia. Il congedo parentale viene richiesto prevalentemente dalle madri, evidenziando un carico familiare sproporzionato che le allontana dal mercato del lavoro o ne riduce le prospettive di carriera​. D’altra parte solo il 13% dei bimbi e delle bimbe trova posto in un nido pubblico, il 28% se si considerano anche quelli privati. Ricordare che il governo di destra ha tagliato e di molto i finanziamenti del Pnrr destinati ai nidi è doveroso. Aggiunge Ghiglione: “Serve introdurre il congedo di paternità paritario anche per contrastare le discriminazioni che le donne vivono nel mondo del lavoro”.

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Cura è anche per anziani e non autosufficienti

I dati dell’Inps raccontano anche come il numero di donne che richiedono i permessi previsti dalla legge 104, quelli per l’accudimento di non autosufficienti, sia costantemente in crescita, dimostrando che il lavoro di cura, aggravato dall'invecchiamento della popolazione, ricade in modo schiacciante su di loro. E quelle donne che si occupano di genitori anziani o di familiari non in grado di occuparsi da soli di sé stessi, senza chiedere i permessi di legge vengono penalizzate come le altre.

La trappola della precarietà

Part-time e lavoro povero sono femmina. Così come è femmina la precarietà. Le donne sono più frequentemente impiegate in lavori part-time, non sempre per scelta, ma spesso per la necessità di conciliare lavoro e cura familiare. Questo si traduce in minori opportunità di carriera, salari ridotti e una minore protezione previdenziale. Nel 2023, il 18% delle lavoratrici occupate ha contratti a tempo parziale, con implicazioni drammatiche sulle pensioni future​. Inoltre, le donne sono maggiormente rappresentate nei settori a bassa protezione sociale e contratti temporanei, aumentando il rischio di disoccupazione e precarietà.

Se il presente è difficile, il futuro lo è di più

La situazione pensionistica femminile riflette le disuguaglianze subite durante la carriera lavorativa. Le donne non solo ricevono pensioni mediamente più basse, ma beneficiano anche più frequentemente di prestazioni assistenziali come l'assegno sociale e i trattamenti di invalidità civile, che però offrono importi molto inferiori rispetto alle pensioni previdenziali percepite dagli uomini.

“È evidente che questo percorso a ostacoli nel periodo lavorativo si traduce in pensioni povere soprattutto per le donne”, chiosa la segretaria nazionale Cgil, che precisa: “Servono interventi incisivi come il riconoscimento del lavoro di cura ai fini previdenziali, la pensione contributiva di garanzia a copertura dei periodi non interessati da versamenti contributivi, per rispondere alla discontinuità lavorativa delle donne, e un’opzione donna che permetta alle lavoratrici, costrette a lasciare il lavoro prima del tempo, di aspirare a una pensione dignitosa”.

Un’unica notizia positiva

Positiva certo, ma che ci piacerebbe non ci fosse.  Perché l’utilizzo del Reddito di libertà, introdotto per sostenere le donne vittime di violenza economica e fisica, è certamente uno strumento cruciale per promuovere l’autonomia e l’emancipazione, ma ci piacerebbe non ci fosse bisogno di attivarlo. In ogni caso, bene che ci sia ma ciò che va meno bene è che fino a maggio 2024, sono state accolte e liquidate solo 2.772 domande. Troppo poche rispetto al numero di donne che vivono in condizioni di vulnerabilità e violenza. 

Conclusione senza appello

È sempre Ghiglione a parlare, e il giudizio sull’operato di Meloni e dell’esecutivo nato all’insegna di “Dio patria e famiglia” – quello cioè  che penalizza le coppie non sposate e vuole aumentare le tasse ai celibi – è netto: “Il rapporto evidenzia come le politiche di questo governo non abbiano migliorato, ma anzi ulteriormente peggiorato, la condizione delle donne nel nostro Paese. Che la politica dei bonus è stata fallimentare anche ai fini della natalità e che si è persa anche l’occasione di cambiare la condizione delle donne attraverso gli investimenti del Pnrr che potevano davvero fare la differenza. Insomma un fallimento del governo sotto tutti i punti di vista”.

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