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C’è davvero poco da festeggiare. L’8 marzo, peraltro, non è una festa, ma la Giornata internazionale della donna, giornata di lotta per affermazione di diritti, a partire da quello al lavoro. Il lavoro, appunto: quello che secondo la Fondazione di Vittorio (che ha appena pubblicato una ricerca dal titolo Occupazione e salari delle donne in Italia. Un’analisi quantitativa, curata dall’economista Nicolò Giangrande) per le donne italiane continua ad essere poco, dequalificato, precario, pagato meno.
Secondo la ricerca dal 2008 al 2021 il tasso di occupazione femminile è cresciuto in Italia soltanto del 2,6% (dal 47,3 al 49,9%). Quello di disoccupazione è aumentato di 2,5% (dal 7,9 al 10,4%). Il tasso di inattività femminile si attesta oggi al 44,2%, superando quello maschile in Italia del 18,5% e quello femminile medio dell’Eurozona del 14%. Il salario medio lordo annuo delle donne si attesta a 16,3 mila euro, con un differenziale di genere che le penalizza nella misura del 31,7%.
I numeri sono davvero impietosi. Lo sottolineano Tania Scacchetti, segretaria confederale della Cgil e Susanna Camusso, responsabile delle Politiche di genere della Confederazione, che rimarcano quanto il Covid abbia aggravato una situazione già grave: “Nella pandemia le donne hanno pagato un prezzo molto alto in termini di occupazione. Occorrono politiche economiche e sociali adeguate per migliorare la condizione occupazionale e salariale delle donne del nostro Paese”.
La cattiva sorte non c’entra. C’entra, invece, l’arretratezza culturale del nostro Paese e un modello sociale fondato – consapevolmente o inconsapevolmente che sia – su stereotipi e lavoro di cura gratuito delle donne. Poca occupazione e poco pagata perché concentrata in lavori meno qualificati, più precari e con un tasso di part-time doppio rispetto agli uomini.
“I dati quantitativi sono impietosi, ma - affermano le due dirigenti sindacali - c’è un altro tema, altrettanto importante anche se trascurato, quello della qualità del lavoro delle donne. La ripresa occupazionale che si registra in questi mesi è sicuramente un dato positivo, ma continuano ad essere penalizzate le donne più giovani, con figli piccoli, e restano significativi il gap tra uomini e donne e, soprattutto, quello con gli altri Paesi dell’eurozona. Inoltre, quando le donne lavorano, lavorano in condizioni peggiori rispetto agli uomini”.
Eppure, le donne sono mediamente più brave e più qualificate dei maschi. Due le questioni che non si riescono a sradicare: da un lato il lavoro femminile continua ad essere considerato aggiuntivo nel ménage familiare, dall’altro le imprese continuano a scaricare sulle lavoratrici il “rischio” della maternità. In Italia il lavoro di accudimento dei figli grava ancora quasi esclusivamente sulle donne, riguarda pochissimo gli uomini, quasi per nulla la società.
L’organizzazione del lavoro risente di tutto ciò. E la ricerca della Fondazione Di Vittorio attesta come quel po’ di occupazione femminile che si è registrata negli ultimi mesi si concentri soprattutto nel terziario e nei servizi, mentre arretra nelle professioni e tra i dirigenti: “Osservando la distribuzione delle donne occupate dipendenti nei primi tre gruppi professionali (dirigenti, professioni intellettuali e scientifiche, professioni tecniche intermedie) si nota come queste, dal 2008 al 2021, in Italia si siano complessivamente ridotte sia in termini assoluti (di circa -200 mila unità) che di peso percentuale (dal 38,5 al 33,9%) mentre nell’Eurozona siano cresciute del 6% (dal 39,2 al 45,2%). Nel caso italiano si registra un aumento del 9% (dal 37,4 al 46,5%) della quota di occupate dipendenti nelle professioni del terziario (ufficio, commercio e servizi) mentre nell’Eurozona si osserva una diminuzione dl 2,1%, dal 40,3 al 38,3%.
Riflettono ancora Scacchetti e Camusso: “Se da una parte cresce l’occupazione delle donne nei settori del terziario, dall’altra si riduce nei primi tre grandi gruppi professionali, ossia quelli dei dirigenti, delle professioni intellettuali e scientifiche e delle professioni tecniche. Per quanto riguarda i salari l’indagine conferma, e se possibile aggrava, il gap di genere che da sempre caratterizza la nostra economia. Part-time involontario, sotto inquadramento, addensamenti più elevati nelle qualifiche più basse costituiscono l’indice di un problema strutturale che ancora fa del reddito e dell'occupazione femminile una questione di minore importanza”.
In questo 8 marzo esiste un ulteriore elemento di preoccupazione. Lo ha evidenziato Valentina Cardinali, responsabile della struttura mercato del lavoro dell’Inapp (Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche) in un articolo pubblicato su lavoce.info. Il Pnrr dovrebbe riservare una quota del 30% alle donne dei posti di lavoro che attraverso bandi e progetti per l’attuazione delle Missioni si creeranno. È giusto usare il condizionale perché, sottolinea Cardinali, il decreto per la governance del Pnrr pubblicato in Gazzetta Ufficiale prevede che le stazioni appaltanti possano utilizzare una serie di deroghe alla clausola del 30%: “La deroga totale avviene nei casi in cui l’oggetto del contratto, la tipologia o la natura del progetto o altri elementi puntualmente indicati dalla stazione appaltante rendono la clausola impossibile o contrastante con obiettivi di universalità e socialità, efficienza, economicità e qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche”. E così il gioco è fatto. Il rischio è infatti una cristallizzazione del mercato del lavoro attuale anche nelle quote di occupazione che si creeranno grazie al Pnrr.
E allora fanno bene Scacchetti e Camusso ad affermare che "per strutturare una diversa cultura del lavoro delle donne nel nostro Paese sono indispensabili un piano straordinario per l’occupazione a partire dai settori pubblici, investimenti in welfare, misure che aiutino la condivisione del lavoro di cura che oggi grava ancora sulle sole donne, il contrasto alla precarietà e la crescita dei salari”.