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Un'emergenza nazionale che dura da troppo anni. Tra progetti di rilancio mai partiti, centinaia di esuberi e intere aree sull'orlo del fallimento, la situazione dell'industria italiana è drammatica. E la pandemia, dopo un anno di chiusure e limitazioni, sta dando il colpo di grazia. I numeri parlano chiaro: secondo un recente report della Fim Cisl, solo nel settore metalmeccanico sono 99 i tavoli di crisi aperti per le aziende sopra i 200 dipendenti: 52 al ministero dello Sviluppo economico e 47 nelle diverse Regioni. Un totale di 55.817 posti a rischio, uno stadio di calcio al completo.
Automotive, elettrodomestici e siderurgia sono i rami più travolti dalle crisi. La regione più colpita è la Campania, con 23 vertenze aperte. Seguono Lombardia (16), Lazio (13) e Puglia (11), ma quasi tutta Italia si trova ad affrontare situazioni difficili. Dominano licenziamenti, de-localizzazioni e chiusura degli impianti. E il 30 giugno, ultimo giorno del blocco dei licenziamenti, si avvicina.
“Queste crisi vengono da molto lontano”, spiega il segretario confederale della Cgil Emilio Miceli: “Sono il frutto di processi complessi di de-industrializzazione e riorganizzazione delle filiere globali, di dumping e di delocalizzazioni più o meno motivate. Questo tipo di fenomeni hanno messo in discussioni aree industriali solide e avanzate. Servono risposte immediate”.
Una delle questioni più annose è quella dell’ex Ilva di Taranto. Il piano industriale parla di ripresa della produzione fino a otto milioni di tonnellate dal 2025 e la riassunzione di tutti i 10.700 dipendenti. Ma restano molti dubbi sulla condizione generale degli impianti, nonché sull’auspicata innovazione tecnologica. Ancora insufficienti poi le condizioni di ambiente e sicurezza. Tanta incertezza anche sulle garanzie occupazionali.
Alla Blutec di Termini Imerese (Palermo) da dieci anni, invece, sono più di 600 gli operai in cassa integrazione. Gli ammortizzatori sociali scadranno il 30 giugno e, a quel punto, potrebbero scattare la liquidazione dell'azienda e i licenziamenti. L'incontro con il Mise non ha soddisfatto i sindacati e sono ancora molti i dubbi sul processo di re-industrializzazione del sito.
Anche la situazione della Whirlpool è tra le peggiori. O meglio: la produzione è in crescita e i profitti dichiarati sono a doppia cifra per il terzo trimestre consecutivo. Nonostante le vendite siano salite del 40%, l'azienda ha confermato la chiusura della fabbrica di Napoli. Un paradosso che costerà caro a chi ha dato la vita a questa azienda: per i 420 dipendenti, ora in cassa integrazione, non ci sarà più un futuro.
E poi ancora la Jsw di Piombino, Elica nelle Marche e la Acciai speciali Terni. Per non parlare della Indelfab (ex Merloni), della ex Embraco o di tutta la galassia ex Fiat. Vertenze che da mesi stanno mettendo sotto pressione il ministero dello Sviluppo economico, con un improvviso cambio di governo che ha complicato ulteriormente la situazione.
“Dobbiamo trovare risposte che ci permettano di garantire dignità e rispetto per i lavoratori e le lavoratrici, in tutto il Paese”, continua Miceli: “Alcune crisi sono legate a processi di innovazione e modernizzazione, non possiamo farci trovare impreparati”. Secondo il segretario confederale della Cgil, l'industria italiana ha dovuto subire “le idee fataliste dei governi e della politica. Troppe crisi, troppi passaggi di proprietà, troppe operazioni speculative. Queste acquisizioni, in alcuni casi, si sono concluse con chiusure e licenziamenti. E sappiamo chi sta pagando il prezzo più alto”.
Miceli sottolinea come le sfide del futuro siano legate non solo alla sostenibilità ambientale e alla transizione energetica, ma anche al mantenimento dei livelli occupazionali. Sotto questo punto di vista, la situazione è critica: “I pericoli sono molti e la pandemia non ci ha aiutato. I mercati chiusi hanno danneggiato tutte le filiere e il calo delle esportazioni non accenna a migliorare. Il rischio è che la nostra industria, dal settore siderurgico a quello chimico, chiuda”.
Ma il comparto metalmeccanico non è l'unico dover affrontare un momento complesso. Non va meglio per la moda, la grande distribuzione e le attività manifatturiere. “I tavoli aperti al Mise sono molti”, spiega Silvia Spera (Area Politiche industriali per la Cgil nazionale): “La crisi di governo ha segnato una forte battuta d'arresto, perché fino a metà marzo non abbiamo potuto confrontarci. È stato tutto fermo per mesi, danneggiandoci”.
Spera sottolinea come il settore della moda stia vivendo un momento duro. L'azienda Corneliani è uno degli esempi più eclatanti: sul tavolo ministeriale c'erano il piano industriale dell’azienda, con 150 licenziamenti annunciati dalla proprietà. Grazie anche a un investitore straniero, le parti sociali hanno cercato di salvare il maggior numero possibile di posti di lavoro, limitando almeno la metà degli esuberi alla possibilità di anticipare la pensione.
Anche il gruppo Forall-Pal Zileri si trova in una situazione simile. In questo caso sono 300 gli operai che rischiano di perdere il posto di lavoro. Sul tavolo ci sarebbero quattro ipotesi di acquisto, due di gruppi industriali e due di fondi d'investimento. Al momento però, non ci sono proposte concrete. Come per Corneliani, il ministero dello Sviluppo economico ha confermato la possibilità di accedere al nuovo fondo pubblico per la salvaguardia dei livelli occupazionali e la prosecuzione dell’attività d’impresa.
“Quando si parla di abbigliamento – riprende Spera – c'è anche da considerare la crisi del prodotto, quindi bisognerà lavorare sul riposizionamento della struttura produttiva del mercato della moda. Molti laboratori opereranno su più marchi, mentre in passato si specializzavano solo su uno o pochi brand. Purtroppo le prime vittime sono i lavoratori e le lavoratrici dei punti vendita. I costi di gestione e le scarse coperture economiche durante i periodi di chiusura forzata hanno causati tanti licenziamenti”.
Anche la grande distribuzione sta avendo grandi problemi. Emblematica è la vicenda Auchan, che lo scorso anno ha visto l'acquisizione del gruppo francese da parte di Conad. I numeri in ballo sono enormi: oggi Conad possiede 147 punti vendita dell’ex Auchan, mentre i restanti 101 sono passati ad altre insegne distributive. Un esercito di 10 mila lavoratrici e lavoratori, preoccupati dal cambio di proprietà. I dipendenti in cassa integrazione o a rischio esubero sono, purtroppo, ancora diverse centinaia.
C'è poi chi è riuscito a sfruttare l'emergenza pandemica e ha evitato di chiudere. “Alcuni rami della nostra industria si sono dovuti adattare a quanto successo nel 2020”, aggiunge Spera: “Il calo degli ordini li ha portati a intraprendere altre strade. Il comparto del mobile imbottito, dopo i tavoli di crisi del biennio 2019-2020, ha in parte adottato una riconversione della produzione e si è messo a produrre mascherine o altro materiale sanitario. Ma è stata una soluzione temporanea. Ora, anche lì, in molti sono in cassa integrazione”.
C'è poi un'ultima questione da affrontare. Sono tantissime le crisi aziendali che non riescono ad approdare al Mise o a un tavolo regionale per via della loro dimensione: piccole imprese, ditte di 10, 20, 30 dipendenti. Il vanto della produzione italiana. Ironia della sorte, sono proprie queste piccole aziende, spesso a conduzione familiare, ad avere più sofferto in questi ultimi anni.
“Abbiamo la necessità di confrontarci con un interlocutore politico che abbia la consapevolezza del quadro generale del nostro sistema industriale e di tutte le aziende italiane” riprende Miceli: “Sarà fondamentale trovare un'idea comune per la gestione della crisi in cui ci ritroviamo. Il nostro obiettivo è la salvaguardia del lavoro e del patrimonio economico di questo Paese”.
Per chi da sempre difende i diritti dei lavoratori, non è accettabile immaginare che un così alto numero di imprese possa scomparire. “Una parte di questa crisi è dovuta al fatto di non aver difeso le nostre aziende”, conclude Miceli: “L'Italia aveva una grande concezione del sistema pubblico, ma abbiamo giocato male le nostre carte. Negli ultimi anni abbiamo abbracciato la logica liberista e, a differenza della Francia, abbiamo lasciato che altri ci comprassero. Dobbiamo riportare interi settori industriali nelle nostre mani e presidiare le filiere, non possiamo sempre dire di sì alle acquisizioni straniere. Sarà una grande sfida, ma noi ci siamo”.