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Womenomic è uno studio da poco pubblicato da Goldman Sachs, nota banca di affari, l’intento e le conclusioni sono assai nobili e importanti: dimostrare come la presenza delle donne nella vita delle imprese e nel mercato del lavoro sia assolutamente positiva. In realtà tale affermazione è cosa nota: lo scorso anno gli studi su quanto la presenza delle donne nel mercato del lavoro faccia bene ha fruttato all’economista Claudia Goldin il Premio Nobel per l’economia.
Scrive Goldman Sachs che la Germania è il primo Paese al mondo per occupazione femminile, seguono Inghilterra, Francia, Stati Uniti e poi Italia. Da noi le donne che lavorano sono una su due, e certo non è un bel risultato. Se si legge il Global Gender Gap Report 2024, il ranking del World Economic Forum, si scopre che il Belpaese è fra i peggiori di Europa nella classifica sulla parità di genere, peggio di noi solo Ungheria e Repubblica Ceca.
E se la base di confronto diventa il mondo, dobbiamo registrare una retrocessione di ben 24 posizioni dal 2022 nella classifica di 146 economie del mondo. Il Global Gender Gap stila la graduatoria utilizzando una serie di indicatori: tra questi la partecipazione al mercato del lavoro, le opportunità economiche, la salute, l’educazione e l’istruzione, la partecipazione politica, e noi ne usciamo davvero male. Non è superfluo ricordare che proprio dal 2022 siede a Palazzo Chigi Meloni, salutata come la prima donna presidente del Consiglio, che però per le altre donne fa davvero poco. A dirlo sono i dati, siamo all’87esimo posto su 146.
È di pochi giorni fa la notizia della fatica che hanno fatto i partiti di centrodestra ad individuare donne da nominare nel Consiglio di amministrazione di Cassa depositi e prestiti per rispettare la legge Golfo Mosca. Per riuscire ad arrivare alla nomina del Cda rispettosa della parità di genere l’Assemblea dei soci ha dovuto modificare lo statuto di Cdp aumentane il numero. Per far posto a una donna, infatti, occorre togliere quel posto a uomo, questo è il punto, allora si aggiunge a quello un altro posto. Meglio questo che nulla? Forse rimane il fatto che, come sottolinea Goldman Sachs, sono davvero poche le donne ai vertici di grandi imprese. In Italia, tra le 40 imprese più grandi quotate in Borsa sono una ha come amministratrice delegate una donna, Giuseppina Di Foggia alla guida di Terna.
E se è vero che proprio grazie alla legge Golfo Mosca oggi il 42,6% dei componenti dei Cda delle aziende quotate in Borsa o partecipate dallo Stato (questo prevede la norma) è donna, e pur vero che la difficoltà di conciliare maternità e lavoro è ancora forte. Basti pensare che ben 100mila posti in asili nido previsti dal Pnrr sono stati cancellati con un tratto di penna. Sarà un caso, lo afferma l’ultimo rapporto di Save The Children, che una donna su cinque lascia il lavoro alla nascita di un figlio? Come si può aumentare l’occupazione femminile e invertire la curva della denatalità senza pensare ai servizi di condivisione e conciliazione dei carichi del lavoro di cura?
O ancora: come fare per aumentare l’occupazione femminile se non si rispettano, inventando deroghe su deroghe, nemmeno le clausole del Pnrr che indicava nel 40% i posti da riservare alle donne nei lavori legati al Piano? E poi i salari, il divario di genere è una vera e propria zavorra che grava sulle spalle delle italiane, ma anche sull’economia del Paese. Il gender gap salariale è subdolo e sia verticale che orizzontale. Ed è strettamente legato alla segregazione occupazionale e agli stereotipi di genere. Da un lato i segmenti del mercato del lavoro a predominanza manodopera femminile sono meno retribuiti, l’operaia tessile e meno pagata dell’operaio metalmeccanico, così come tutti i lavori afferenti la cura hanno salari più bassi. Dall’altro lato alle donne, molto più che agli uomini, si impone il part-time.
LHH, società internazionale di Risorse Umane, insieme a all’Osservatorio JobPricing e IDEM | Mind The Gap, ha pubblicato un rapporto assai interessante e dal titolo inequivoco: Italia ancora indietro sul gender pay gap, secondo questo studio è come se le donne italiane, pur lavorando come gli uomini dal 1 gennaio di ogni anno, cominciassero a percepire il salario solo da metà febbraio. Se si confronta il salario medio annuale di tutti gli occupati con il salario medio annuale di tutte le occupate la differenza è del 43%.
Se invece che i dati di una società privata leggiamo quelli Osservatorio sui lavoratori dipendenti del settore privato dell'Inps, scopriamo che il gender pay gap complessivo ammonta a 7.922 euro. Questi numeri attestano che la media annua di chi lavora in Italia è di 22.839 euro, per il genere maschile è di 26.227 euro, per il femminile di soli 18.305.
Da un governo guidato da una donna ci si aspetterebbero politiche per ridurre i divari tra donne e uomini. Peccato che tutti gli interventi del governo Meloni abbiamo come modello femminile da affermare quello della madre che si occupa della cura dei figli, del marito e degli anziani in quasi totale solitudine. Se poi quella donna vuole anche lavorare, tutta la fatica e gli stereotipi che portano ai pregiudizi e alle discriminazioni saranno sulle sue spalle.