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Chi l’avrebbe mai detto che il primo governo guidato da una donna avrebbe spinto per cambiare le norme antidiscriminatorie per promuovere nei ruoli apicali di nomina politica solo uomini? L’hanno detto quante da sempre sostengono che non basti essere donna per promuovere politiche a favore delle donne. Se a portare alla presidenza del Consiglio sono le stesse logiche e la stessa concezione del potere praticate dai maschi, non ci si può meravigliare. D’altra parte, se il primo atto ufficiale di Palazzo Chigi dopo il giuramento di Meloni è una nota con lo scopo di rendere edotti giornalisti e giornaliste che, in spregio alla lingua e alla grammatica italiana, la neo presidente del consiglio vuole essere definita al maschile, di cosa ci si meraviglia?
Non si meraviglia Lara Ghiglione, segretaria confederale della Cgil, che è invece preoccupata e assai critica. Afferma infatti: “Mentre tutta l'Europa si interroga su come intervenire sulle disparità di genere, il governo dimostra ancora una volta l'orientamento retrogrado dell'attuale maggioranza, che manca di una reale volontà di promuovere le pari opportunità e l'inclusione delle donne nei ruoli decisionali”.
La Legge Golfo Mosca
Il 12 agosto 2011 entra finalmente in vigore la legge 120/2011, più conosciuta come legge Golfo Mosca. La norma introduce un meccanismo per rendere – attraverso un automatismo – più equilibrata la presenza dei generi nei consigli di amministrazione delle società quotate e di quelle, se non quotate, controllate dal pubblico. E già, perché nonostante il Paese sia ricco di donne assai preparate e autorevoli, quando si tratta di “posti di potere” a occuparli sono sempre uomini. Che la legge abbia funzionato non vi è dubbio, visto che la componente femminile nei cda è costantemente aumentata.
Quando si dice il caso
Cassa depositi e prestiti deve rinnovare il proprio consiglio di amministrazione: una quota dei componenti è di indicazione politico-governativa, ma guarda il caso i nomi indicati dai partiti della maggioranza di destra sono tutti di uomini. Davvero un bel rompicapo. Che fare? Presto detto: facciamo finta che la legge 120/2011 non esista e modifichiamo lo statuto della Cassa, si son detti dalle parti di Palazzo Chigi.
Senza vergogna
Detto fatto! Per il prossimo 15 luglio è convocata un’assemblea di Cassa depositi e prestiti (che, lo ricordiamo, è partecipata dal ministero del Tesoro all’85%) per modificare il proprio statuto che oggi prevede per il genere meno rappresentato “una presenza di almeno due quinti con arrotondamento all’unità superiore”. Se questa operazione andasse in porto, la presenza femminile si ridurrà a 1/3. Davvero un’ottima decisione quella della donna presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Aggiunge la dirigente sindacale: “Questo cambiamento rappresenta un grave passo indietro, allontanando la cassaforte pubblica del risparmio postale dalle migliori pratiche adottate dalle aziende quotate”.
Continua il passo del gambero
Non siamo solo il Paese con il tasso di occupazione femminile più basso d’Europa, non solo siamo il Paese con le politiche di conciliazione e condivisione della genitorialiatà più arretrato (e guarda caso, tra gli impegni del Pnrr tagliati dal Governo Meloni ci sono 100 mila posti in asilo nido), non siamo solo il Paese tra i più arretrati per la presenza femminile nei luoghi elettivi della politica. Siamo pure il Paese che perde posizioni anche nelle statistiche mondiali sulla parità. Ben 16 in meno nel Global gender gap del 2023, passando dal non già lusinghiero 63° al 79° posto. Chissà nella classifica del prossimo anno dove ci attesteremo.
Perché modificare lo statuto di Cdp?
Perché i partiti di destra, dopo quattro rinvii e un mese e mezzo di negoziati, continuano a proporre per il cda solo uomini. Non esistono donne in grado di sedere in quel consiglio? Esistono eccome, solo che la destra al governo probabilmente nemmeno le conosce, perché per loro il potere è “questione di maschi”. Altro che rottura del tetto di cristallo.
“Una scelta, quella di modificare lo statuto, che fa finire merito e pari opportunità nel cestino", aggiunge la segretaria confederale Cgil: “Le donne competenti e qualificate ci sono e devono avere accesso a queste posizioni. La scelta di superare le quote è profondamente sbagliata e tradisce i principi di uguaglianza e inclusione che dovrebbero essere al centro di ogni politica pubblica”.
Il modello femminile
Lo ha sempre dichiarato Meloni: madre! Possibilmente a casa, a occuparsi di figli e figlie e pure degli anziani. Se poi le donne vogliono anche lavorare, fatica e problemi sono tutti a carico loro, la priorità è invertire la curva negativa della natalità. Di contro, il modello maschile è quello che occupa tutti gli spazi pubblici e di potere. Così facendo ci vorrebbero far tornare indietro di decenni. Davvero pensano che le donne italiane siano d’accordo? Certamente d’accordo non è la Cgil.
Conclude Ghiglione: “Chiediamo con forza che questa decisione venga rivista e che le quote antidiscriminatorie non siano ridotte. Le donne competenti e qualificate ci sono e devono avere accesso ai ruoli decisionali. Il governo deve dimostrare con i fatti, e non solo con le parole, di credere nelle pari opportunità”.