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Il 3 giugno 1944, poche ore prima della liberazione della capitale da parte degli Alleati, il lavoro di dialogo unitario avviato già negli anni trenta tra i principali esponenti del sindacalismo italiano culmina nella firma del Patto di Roma (l’accordo ufficiale porta la data del 9 giugno, ma sarà antidatato per onorare la memoria di Bruno Buozzi, barbaramente ucciso dai nazisti il 4 giugno). La Cgil unitaria nasce dal compromesso tra le tre principali forze politiche italiane: il Patto di Roma è siglato da Giuseppe Di Vittorio per i comunisti, Achille Grandi per i democristiani, Emilio Canevari per i socialisti.
I primi incontri tra Buozzi e Di Vittorio avvengono nel carcere parigino "de La Santé" 1 nel febbraio 1941. Nel 1942, quando Di Vittorio è al confino a Ventotene, si hanno incontri importanti a Torino tra Grandi e Buozzi e tra Buozzi e Roveda (sarà proprio Buozzi, insieme al commissario di Confindustria Mazzini, che nel settembre 1943 firmerà il primo accordo sindacale libero dopo la fine della dittatura). Relaziona nel febbraio 1944 Di Vittorio alla segreteria del partito su di una prima conversazione con Buozzi: “Questa ha vertito su due punti essenziali. Il primo sollevato da Br., concerne la obbligatorietà o meno del sindacato e la questione del suo riconoscimento giuridico da parte dello Stato; col che si trova posta implicitamente la questione della dipendenza del sindacato dallo Stato stesso. Bruno Buozzi ha ribadito il suo concetto, su cui aveva già tanto insistito in conversazioni col nostro compagno G (Roveda, ndr). Egli ha sostenuto che il sindacato deve esigere il riconoscimento giuridico, deve essere obbligatorio per tutti i lavoratori interessati, con quotizzazioni ugualmente obbligatorie, da trattenere sui salari e stipendi. (…) Al suo sistema ho contrapposto il nostro. Sindacato libero, su basi democratiche, indipendente dallo Stato e da ogni influenza estranea alla classe operaia; nessuna obbligatorietà d’iscrizione, né di quotizzazione. Il sindacato deve trarre la sua forza, la sua autorità, e i mezzi per la sua attività funzionale, dall’entusiasmo ch’esso deve saper suscitare nelle masse e dall’interesse che le masse stesse avranno di rafforzare e sviluppare il sindacato, nella misura in cui esso saprà essere effettivamente il difensore dei loro interessi quotidiani e di classe”.
Così, nella stessa relazione, Di Vittorio racconta la “prima conversazione col cattolico” (Grandi, ndr): “La conversazione con questi è stata, sotto certi aspetti, più interessante, perché sono state toccate le questioni fondamentali del sindacato, quelle che ne determinano il carattere e sulle quali noi abbiamo una posizione ben definita, che possiamo qualificare di principio. L’accordo coi cattolici su tali questioni sarà molto laborioso, giacché essi vorrebbero chiaramente svuotare il sindacato di ogni contenuto di classe e frenare e limitare al massimo ogni iniziativa delle masse; cioè, tutto il contrario di quel che vogliamo noi. È vero che l’amico cattolico s’è limitato a porre delle domande, affermando che esse non rispecchiano opinioni già definite, ma tendono a conoscere la nostra posizione sulle questioni poste perché ne possa discutere coi suoi amici. Ma il modo con cui sono state poste le domande, e la conoscenza che noi abbiamo delle concezioni sindacali dei cattolici, indicano chiaramente che, sotto forma di questioni, l’amico cattolico esponeva le sue posizioni per confrontarle con le nostre. Conscio dell’enorme interesse che ha per l’unità sindacale e per tutta la nostra politica l’accordo coi cattolici, e l’interesse che abbiamo a evitare una loro coalizione coi socialisti, ho risposto con chiarezza alle sue questioni, evitando accuratamente di presentare le nostre posizioni con punte acute e cercando d’illustrarle nel modo più persuasivo che mi è stato possibile".
Con il Patto di Roma del 1944 rinasce la Cgil unitaria che, seppure destinata a una vita breve a causa delle tensioni politiche nazionali e internazionali legate al nuovo scenario della guerra fredda, inciderà notevolmente sugli assetti costituzionali dell’Italia e sulla ricostruzione materiale, economica, sociale, civile e umana del Paese, uscito sconfitto dal conflitto mondiale. Affermava in occasione del 100° anniversario della fondazione l’allora segretario generale Cgil Guglielmo Epifani: “Il 1° ottobre del 1906 nei locali della Camera del lavoro, al termine del congresso delle organizzazioni di resistenza, i 500 delegati presenti in rappresentanza di oltre 200 mila iscritti decidevano a maggioranza, con il voto contrario dei delegati rivoluzionari - che avrebbero poi abbandonato il congresso - di costituire in Italia la Confederazione generale del lavoro, affidandole la direzione generale assoluta del movimento proletario, industriale e contadino, al di sopra di qualsiasi distinzione politica".
Quel soggetto confederale, che nasce quel giorno, è altro "e più delle rappresentanze di categoria, professione, arte e mestiere e del mutualismo delle origini", prosegue Epifani: "Non è altro perché diverso e non è più perché sovraordinato. Ma perché l’identità confederale richiede inevitabilmente una ricerca permanente di valori e politiche di unità, partendo dalle differenze; e un’idea alta di autonomia comunque espressa nelle alterne fasi che hanno segnato la storia dei rapporti fra partiti e sindacati. Solo un sindacato confederale - quello di ieri e quello di oggi - può tenere unite dentro di sé le ragioni dei lavoratori della terra a quelli dell’industria, quelli pubblici e quelli privati, quelli del Sud e quelli del Nord, gli emigranti e gli immigrati, i giovani che studiano, i disoccupati, gli anziani e i pensionati. Tutto, proprio tutto, della vita centenaria del sindacato italiano sta qui, in quell’atto, in quella scelta, in quell’inizio. In quell’idea - come ci ricorda Vittorio Foa - per la quale battendosi per i propri diritti si pensa insieme sempre ai diritti degli altri".
Del resto, affermava qualche anno prima Bruno Trentin, “lavorare per la Cgil e nella Cgil non è un mestiere come un altro, ma può essere, può diventare una ragione di vita”. E ormai più di un anno fa, nel momento dell’elezione a segretario generale della Cgil, Maurizio Landini così diceva: “Posso garantirvi che la Cgil mi ha fatto innamorare e che ho imparato a voler bene a tutti quelli che, come noi, per vivere hanno bisogno di lavorare. Ho imparato tanto dalla loro dignità e continuo a credere che questa società che sfrutta le persone, che le mercifica, sia una società che si deve combattere, che non possiamo accettare, che dobbiamo trasformare insieme. Ma non domani. Qui e ora. Questa causa val bene un impegno, val bene un rischio, val bene una vita”. Nel 1906, nel 1944, oggi.
1 Così Giuseppe Di Vittorio raccontava le sue vicende carcerarie con Bruno Buozzi a Parigi: “Il nostro incontro avvenne nel febbraio 1941, nella prigione de La Santé. Ignoravo che anche Buozzi si trovasse rinchiuso nella stessa prigione. Un giorno, verso la fine di febbraio, la polizia hitleriana addetta alle funzioni carcerarie, trasse dalla monotonia delle celle d’isolamento un folto gruppo di detenuti per una corvée. Bisognava scaricare alcuni autocarri carichi di eccellente pane, destinato ai nostri carcerieri. Fummo raggruppati in un cortile, dal quale poi, per gruppi di dieci detenuti in fila indiana, scortati da guardie armate di mitra, si partiva carichi di sacchi ripieni di pagnotte, verso i magazzini dell’immensa prigione.
Fu in quel raggruppamento di detenuti comandati alla corvée che rividi Bruno Buozzi. Appena i nostri occhi si incontrarono, con moto quasi istintivo manovrammo entrambi accortamente per avvicinarci l’uno all’altro. Riuscimmo appena a toccarci furtivamente le mani, giacché la severissima vigilanza dei nostri aguzzini tendeva a rendere impossibile ogni scambio di parole e di segni fra detenuti. Vidi gli occhi amichevoli di Buozzi brillare di gioia nel vedermi: ero la prima persona conosciuta e amica che incontrava in quella triste prigione, nello stato di angoscia in cui lo aveva gettato l’arresto.
«Per me non m’importa nulla», mi disse subito: «mi preoccupa il grande dolore di mia moglie e della mia bambina, poveretti!».
Un urlo da belva emesso da uno dei nostri guardiani, che aveva sentito il bisbiglio di quelle poche parole, troncò sull’inizio la nostra conversazione. Tuttavia riuscimmo a rimanere nello stesso gruppo di dieci e a marciare l’uno dopo l’altro nella corvée. Mentre salivamo uno scalone, curvi sotto il carico del pane, riuscii a dire a Buozzi parole di conforto per la sua famiglia e cercai di sapere le cause del suo arresto. Buozzi mi disse che la Gestapo hitleriana, ignara della sua vera personalità, voleva sapere da lui i motivi del suo arresto, dato ch’egli era stato arrestato su richiesta del governo fascista italiano, per essere trasferito in Italia, a disposizione di Mussolini. Bruno Buozzi aveva appena completato la frase, che uno dei nostri guardiani, con uno spintone improvviso a Buozzi - che mi precedeva - ci sbatté a terra entrambi, facendoci ruzzolare sulle scale, col nostro carico di pane, coprendoci d’improperi e di minacce. Fummo subito separati e riportati ognuno nella propria cella, col rimpianto di non aver potuto continuare il discorso e con le narici inondate dalla fragranza di quel pane fresco, che la fame ci faceva sognare ogni notte!
Da quel momento, però, con la tecnica nota ai vecchi carcerati politici, riuscii a stabilire collegamenti quasi regolari con Buozzi mediante lo scambio di biglietti, con i quali ci mandavamo notizie e pensieri e qualche cibaria. Dopo alcuni giorni riuscimmo sovente a prendere l’ora d’aria quotidiana nello stesso cortile, dove la possibilità e la volontà dei detenuti di conversare fra loro sono più forti della più occhiuta vigilanza. Tutte le nostre conversazioni, partendo dal presupposto comune dell’assoluta necessità dell’unità sindacale, nazionale e internazionale, e dall’esigenza imperiosa dell’unità d’azione fra i due partiti, comunista e socialista - quale base fondamentale d’unità della classe operaia - rafforzavano continuamente il nostro accordo sulle questioni di maggiore interesse, relative alla riorganizzazione del movimento operaio italiano e alla ricostituzione democratica dell’Italia”.