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Ci aspettavamo che l’ingresso di una donna a Palazzo Chigi mettesse ordine sul senso e sull’uso delle parole. Il racconto della realtà che ci circonda è un racconto complesso perché complessa è la realtà. Innanzitutto, perché è composta di due generi, dovremmo essere capaci di usare le parole per nominare correttamente cose e fatti. Ma le nostre aspettative sono andate sonoramente deluse.
“In principio era il verbo, e il verbo era presso Dio, e il verbo era Dio”. Così recita l’incipit del Vangelo di Giovanni assegnando al “verbo”, alle parole, un potere potente, quello di definire cose e fatti costruendone il senso. Ciò che non si nomina non esiste, ciò che si nomina scorrettamente, distorce la realtà e crea un senso comune, una cultura distorta. Costruisce stereotipi.
“Il presidente del consiglio si è recata” non solo è un obbrobrio grammaticale, è una descrizione distorta ed errata della realtà. Ma che corrisponde, appunto a uno stereotipo antico come antica è la cultura patriarcale che ci attraversa. Nella sfera pubblica, come in quella del lavoro, i ruoli di potere o le professioni “importanti” vengono, troppo spesso, declinati al maschile anche quando a ricoprirli sono donne. Maschile non neutro, perché tradizionalmente quei ruoli era occupati da uomini.
Ma tutto ciò è grammaticalmente e linguisticamente assai scorretto. Lo attesta anche la stessa Accademia della Crusca che ha tracciato importanti Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio per il pari trattamento nell'ambito di leggi e atti organizzativi, nonché nell’attribuzione dei titoli funzionali accademici, professionali, istituzionali od onorifici, concorrendo così alla rimozione dei pregiudizi e degli stereotipi di genere. E già, il punto è proprio questo, utilizzare il femminile per nominare incarichi e ruoli ricoperti da donne significa affermare che la realtà è composta da due generi e che anche “il potere” può e deve essere anche delle donne che rompono il tetto di cristallo per sé e per le altre. La presidente, la ministra, la sindaca!
Egual ragionamento vale per il mondo del lavoro. Medico, infermiera; maestra, professore e potremmo continuare. Eppure la maggior parte dei medici è donna! Ma il mondo delle professioni è descritto al maschile mentre le funzioni “ancillari” o di cura hanno la declinazione al femminile. E siccome, come dicevamo, le parole costruiscono pensiero e realtà, occorre riflettere sul fatto che quelle mansioni a predominante mano d’opera femminile, generalmente, sono pagate meno. Un esempio? Nella manifattura gli operai metalmeccanici sono retribuiti di più degli – o meglio delle – operaie tessili! E ancora, nel pubblico impiego le retribuzioni delle mansioni afferenti il lavoro di cura, dalle operatrici dei nidi alle assistenti sociali, sono tra le più basse del comparto. Ed ecco svelata una – non tutte - delle ragioni del gender gap!
Sta a noi, prima di tutto, nominarci e far in modo che altri utilizzino correttamente le parole. Non è solo una questione di grammatica, è uno dei modi per contribuire alla rottura di stereotipi e alla costruzione della realtà fondata su due generi.