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Il governo Tambroni – in carica dal 25 marzo 1960 al mese di luglio dello stesso anno – è il quindicesimo esecutivo della Repubblica Italiana, il terzo della terza legislatura, il primo a essere sostenuto da una maggioranza di centrodestra durante la Prima Repubblica.
L’ex ministro dell’Interno avrebbe dovuto guidare un governo di transizione verso una maggioranza di centrosinistra, tuttavia nel discorso con il quale si presenta alle Camere per chiedere la fiducia il presidente del Consiglio incaricato presenta un indirizzo politico ispirato al binomio "legge ed ordine", ottenendo per la prima volta la fiducia grazie ai 24 voti del Movimento Sociale Italiano, determinando uno spostamento a destra degli equilibri politici e favorendo il tentativo del partito neofascista di uscire dall’isolamento in cui fin dalla sua nascita era stato relegato.
Il 14 maggio il Movimento sociale italiano ufficializza il suo sesto Congresso per il 2 luglio a Genova, città medaglia d’oro alla Resistenza. In un rapporto prefettizio si legge: “Tale notizia ha provocato viva reazione negli ambienti partigiani che si propongono scioperi e azioni di piazza. Anche il senatore Terracini, nel comizio tenuto il 2 corrente a Pannesi, ha affermato che la scelta di Genova è un’offesa ai valori della città decorata con la medaglia d’oro e che bisogna riunire tutte le forze della Resistenza per tale occasione”.
Dopo due cortei, il primo svoltosi il 25 giugno, e il secondo, il 28 giugno, concluso con un comizio di Sandro Pertini, il 30 giugno la Camera del lavoro proclama lo sciopero generale. La manifestazione procede in maniera tranquilla, ma davanti al tentativo da parte della polizia di sciogliere il corteo e alla minaccia della calata in massa dei fascisti verso Genova esplode la rabbia popolare. I vecchi partigiani, le giovani leve della classe operaia e gli studenti universitari, trovatisi per la prima volta fianco a fianco in unità d’intenti, non solo non soccombono alla polizia, ma impediscono il congresso missino.
Purtroppo, però, è solo l’inizio. Il 5 luglio a Licata, in provincia di Agrigento, durante una manifestazione unitaria di braccianti e operai, polizia e carabinieri caricano e sparano contro il corteo guidato dal sindaco Dc Castelli uccidendo Vincenzo Napoli – primo, purtroppo non ultimo, morto delle giornate del luglio ’60 – che, si racconta, cercava di difendere un bambino tenuto fermo a un muro e picchiato dai celerini.
Il giorno successivo a Roma è prevista una manifestazione delle forze antifasciste e democratiche che viene vietata dal prefetto poche ore prima dell’inizio del corteo. L’iniziativa però si tiene ugualmente. Sfidando apertamente il divieto i romani scendono per le strade e si dirigono a Porta San Paolo con l’obiettivo di deporre una corona d’alloro, bordata del nastro tricolore, in memoria dei caduti della Resistenza.
I manifestanti vengono colpiti dalle violente cariche della polizia e dei carabinieri a cavallo, guidati da Raimondo D’Inzeo, che in settembre parteciperà alle Olimpiadi di Roma, conquistando la medaglia d’oro. Contro le cariche a cavallo la folla si difende lanciando i sampietrini divelti dalle strade e facendosi scudo con i cartelloni pubblicitari.
Ricorderà anni dopo Aldo Natoli: “Si trattava di attraversare il breve spazio, meno di cento metri, che ci separava dalle schiere dei poliziotti che presidiavano la Porta e i varchi che davano accesso al piazzale retrostante. Il contatto e, forse, lo scontro sembravano inevitabili, poiché eravamo ben decisi ad affermare il nostro diritto, offeso, a rendere omaggio a quel luogo simbolico della Resistenza antifascista. Su quella piazza, qualche centinaio di metri sulla destra, vicino alla caserma dei vigili del fuoco, mi ero trovato la mattina del 9 settembre 1943 e avevo sentito fischiare le pallottole; come potevano fermarci ora le camionette della Celere? In schiera ordinata, avevamo fatto pochi passi e ci trovavamo proprio in mezzo al guado, non vi era stato ancora alcun contatto con i cordoni polizieschi, quando avvenne la sorpresa; dalla sinistra, dove era stato ben coperto dietro l’angolo di case e muraglie, irruppe dritto su di noi uno squadrone di carabinieri a cavallo, al galoppo, mulinando in aria non sciabole bensì frustini”.
Al termine degli scontri si conteranno settecento fermati e centoventi feriti. “Poliziotti e carabinieri – scrive Giuseppe Sircana, storico e responsabile dell’Archivio storico della Cgil di Roma e del Lazio – obbedendo alle consegne avute, si accaniscono contro i parlamentari. Il deputato socialista Fernando Schiavetti, dopo essere stato malmenato, cerca una via di scampo mostrando la tessera da giornalista a un commissario che gli consiglia: 'Dottore tagli la corda, qui tira una brutta aria!'. Oreste Lizzadri, Pietro Ingrao e altri sono circondati, fermati, insultati come 'assassini', 'servi di Mosca', 'mascalzoni'. Costretti a salire su un cellulare sotto la minaccia dei mitra, vengono condotti in questura e poi nella caserma del reparto Celere a Castro Pretorio. Appena rilasciati accorrono alla Camera per denunciare il grave accaduto. Anche Emilio Lussu, Menchinelli e l’avvocato Piccardi vengono malmenati mentre diversi parlamentari devono ricorrere alle cure del medico all’ospedale San Camillo o alla infermeria di Montecitorio”.
Alle ore 20 e 50 del 6 luglio 1960 la Cgil invia un fonogramma direttamente a Ferdinando Tambroni.
Il testo, firmato da Agostino Novella e Fernando Santi, recita: “In relazione luttuosi et gravi avvenimenti Licata ed altre località oltrecché numerosi interventi forze di polizia contro libero esercizio diritto di sciopero, segreteria confederale chiede urgente colloquio S.V.”.
E il giorno successivo, a Reggio Emilia, si scende di nuovo in piazza. La polizia spara nuovamente contro i dimostranti e cinque persone rimangono a terra uccise: Lauro Farioli (22 anni), Ovidio Franchi (19), Emilio Reverberi (39), Marino Serri (41) e Afro Tondelli (36). Tutti e cinque operai e comunisti, alcuni ex partigiani.
Al funerale, in forma civile e unico per le cinque vittime, parteciperanno migliaia di persone, fra le quali molti esponenti politici: tra questi Ferruccio Parri. “Oggi noi siamo sicuri – dirà – che se i nostri avversari ci costringessero a una prova di forza, ad una prova decisiva, noi siamo sicuri della vittoria perché l’abbiamo controllato in questi giorni, sulle piazze d’Italia, in mezzo alle masse popolari. Ma noi non desideriamo la prova di forza, non desideriamo una vittoria ottenuta in questo modo perché le vittorie di questo genere le paga il popolo. Noi non vogliamo che si allarghino nelle piazze del nostro paese queste macchie di sangue. Una tremenda responsabilità investe le supreme autorità dello Stato, ad esse spetta prima di tutti il compito di impedire che la situazione precipiti verso soluzioni estreme”.
Al funerale parteciparono anche Palmiro Togliatti, Nilde Iotti, delegazioni del Pci, Psi e del Psdi, esponenti della Resistenza, delle forze antifasciste, Luciano Romagnoli e Fernando Santi per la Cgil.
La segreteria confederale rimane riunita in seduta permanente dal 7 al 9 luglio e all’appello (affinché “in tutto il Paese si elevasse la ferma protesta dei lavoratori come un severo monito contro ogni attentato alle libertà democratiche e al sentimento antifascista del popolo italiano”) seguirà la proclamazione dello sciopero generale per il giorno successivo “per porre termine a questa situazione intollerabile”.
L’8 luglio, a Palermo, il centro è presidiato fin dalle prime ore del mattino dalla celere per disturbare lo sciopero generale proclamato dalla Cgil per i fatti di Reggio Emilia. Negli scontri con la polizia restano uccisi: Francesco Vella, 42 anni, sindacalista; Giuseppe Malleo, 16 anni; Andrea Gancitano, 18 anni; Rosa La Barbera, 53 anni, casalinga; 36 manifestanti sono feriti da proiettili; 400 i fermati, 71 gli arrestati. Sempre l’8 luglio, a Catania, rimane ucciso da un colpo di arma da fuoco sparato dalla polizia Salvatore Novembre, giovane lavoratore edile di 20 anni.
Scriveva in quei giorni Luciano Romagnoli su Rinascita: “Che cosa era in discussione a Genova? E, dopo ancora, a Licata, a Roma e a Reggio Emilia? Che cos’era in discussione nel paese? Era il fondamento stesso dello Stato democratico: l’antifascismo, la resistenza e la Costituzione repubblicana”.
Così sempre nel mese di luglio, e sempre su Rinascita, Vittorio Foa: “Il fascismo per i lavoratori italiani oggi non è solo l’eco remota e nostalgica delle squadracce e delle aquile e degli orpelli barbarici dell’età mussoliniana, ma è, nelle condizioni mutate, l’arbitrio in luogo della giustizia, la disciplina subordinata in luogo della parità dei diritti e doveri reciproci fra lavoratore e padrone, la corruzione e l’avvilimento, la mancanza di prospettiva, il contrasto tra i profitti giganteschi e i salari stagnanti, lo sfruttamento intensivo della forza lavoro che impedisce all’uomo, finito il lavoro, di avere forze bastevoli per partecipare alla vita nelle sue forme più alte”.
“Abbiamo sconfitto i fascisti e Tambroni”, dirà esultante Rinaldo Scheda affermando: “Lo sciopero generale nazionale di protesta dichiarato dalla Cgil l’8 luglio in seguito all’uccisione da parte della polizia di cinque lavoratori di Reggio Emilia, ha determinato nel Paese un sussulto vigoroso, ha contribuito in modo decisivo a cacciare dalla direzione governativa la compagine clerico - fascista capeggiata dall’on. Tambroni. Le rabbiose reazioni dei circoli governativi e padronali contro questa grande manifestazione, le tragiche sparatorie della polizia a Palermo e a Catania nella giornata dell’8 luglio contro gli scioperanti, forniscono la prova drammatica della riuscita dello sciopero, delle larghe adesioni che esso ha avuto tra i lavoratori. L’ondata di manifestazioni antifasciste che hanno dominato la vita politica del paese nelle ultime due settimane in risposta alle provocazioni messe in atto dal governo Tambroni, ha avuto nella giornata dell’8 luglio il suo momento più avanzato. Lo sciopero generale ha consolidato l’unità di tutti gli antifascisti mobilitati per impedire una involuzione antidemocratica del paese e ha offerto uno sblocco legittimo alla spinta crescente delle masse lavoratrici verso un mutamento profondo della situazione politica, sociale ed economica dell’Italia”.
È la fine davvero. Con la piena approvazione delle convergenze democratiche tra Dc, Psdi, Pri e Pli, Tambroni riunisce il Consiglio dei ministri. Preso atto della formazione di una nuova maggioranza il presidente del Consiglio il 19 luglio si reca dal capo dello Stato per presentare le dimissioni.