Peccato, davvero peccato che il recente numero della Rivista delle politiche sociali, dal titolo: “Politiche attive del lavoro e creazione diretta di nuova occupazione”, non sia stato pubblicato prima dell’abolizione del reddito di cittadinanza. Anche se, probabilmente, Meloni e Calderone, pur leggendolo, non avrebbero cambiato idea su come intervenire per affrontare due problemi differenti, sebbene connessi tra loro. Da un lato le politiche attive del lavoro, dall’altro il contrasto alla povertà.

Questo numero della Rivista diretta da Rossana Dettori,  curato da Andrea Ciarini, docente di Sociologia dei processi economici e del lavoro all’Università la Sapienza di Roma, e Michele Raitano, direttore del Dipartimento di Economia e diritto della stessa Università, approfondisce e mette in evidenza come la ormai abbastanza diffusa pratica del sovrapporre le politiche attive del lavoro con il contrasto alla povertà sia insufficiente ad affrontare pienamente le due questioni.

E proprio l’artificiale distinzione tra occupabili e non occupabili, alla base dei due strumenti che l’ssecutivo ha ideato per sostituire il reddito di cittadinanza, sta lì a dimostrarlo. Sostengono i curatori del volume: “Di fronte a una domanda di lavoro debole e caratterizzata da ampie e crescenti sacche di lavoro povero, quando non irregolare, le politiche attive del lavoro non possono bastare e, anzi, rischiano di risultare inefficaci”.

Il nodo, infatti, sta tutto qui: se da un lato i cosiddetti occupabili non è affatto detto, anzi spesso non lo sono, che rispondano ai requisiti richiesti da chi cerca lavoratori e lavoratrici, dall’altro una quota consistente di quanti sono in difficoltà economica in realtà un lavoro ce l’hanno, ma dal salario insufficiente. E allora strumenti di sostegno al reddito sarebbero, sono indispensabili. Politiche attive del lavoro e strumenti di welfare, dunque, non sono sovrapponibili ma debbono essere considerati complementari. Aggiungono Ciarini e Raitano: “Il numero che presentiamo si colloca in questo scenario, riflettendo sui nessi mancanti tra politiche attive e passive del lavoro e politiche industriali e della domanda di lavoro”.

Il titolo del saggio, curato dall’economista Dario Guarascio, è emblematico: “Il legame (mancante) tra politiche industriali e del lavoro”. Lo scritto evidenzia come nel tempo le politiche industriali hanno subìto profonde trasformazioni, e non esattamente positive, mutandosi sempre più in politiche per l’occupabilità che poco hanno a che vedere con l’idea strategica di sviluppo dell’intero Paese e con produzione e posti ad alto valore aggiunto”.

Ecco allora una politica industriale "fatta di incentivi alle imprese e deregolamentazione del mercato del lavoro, che porta con sé l’impoverimento del lavoro, la precarizzazione e la svalorizzazione dei diritti e della dignità”. E, sottolinea l’autore, mentre “in altri Paesi si producono riforme con l’obiettivo di orientare verso un’occupazione stabile e ad alto reddito, l’Italia è indietro su questo percorso e il Pnrr, che in origine sembrava andare in questa direzione, dopo le diverse correzioni rischia di tornare sulla vecchia via degli incentivi alle imprese”.

Che fare? La risposta spontanea è una seria politica industriale e un’altrettanto seria politica dell’occupazione, cercando di evitare l’approfondirsi della distanza tra chi ha una buona posizione lavorativa e chi è intrappolato nel lavoro povero. Come procedere? Gregorio Buzzelli (assegnista di ricerca al Politecnico di Torino) e Stefano Sacchi (docente di Scienza politica al Politecnico di Torino) provano a far rispondere i cittadini e le cittadine di 13 Paesi europei, indagandone le preferenze rispetto a un possibile schema europeo di disoccupazione.

Il risultato è allo stesso tempo sorprendente e consolante, sembra davvero che siano più “avanti” di molti governanti. E gli italiani e le italiane non sono da meno: anche loro “preferiscono” uno schema europeo fondato su trasferimenti economici generosi ma condizionati e soprattutto legati ad attività di formazione, ma da finanziare non con un aumento delle tasse. Come era prevedibile immaginare, i lavoratori e le lavoratrici più vulnerabili propendono per soluzioni con maggiori trasferimenti e meno condizioni rispetto a chi un buon lavoro ce l’ha.

In Italia vi è un ulteriore elemento di contraddizione, che con l’avvento dell’autonomia differenziata rischia di diventare esplosivo: un welfare non omogeneo tra i diversi territori. Sono Donato Di Carlo (direttore del Luiss Hub for new industrial policy) e Anna Villa (assegnista di ricerca al Dipartimento di Culture, politica e società dell’Università La Sapienza) a occuparsene in “Motori della crescita, divari regionali e cittadinanza sociale nelle diverse regioni italiane”. La fotografia di quel che accade è un cane che si morde la coda: le regioni del Centro-Nord possiedono un sistema di welfare a sostegno dello sviluppo, le regioni del Sud molto meno. Il risultato è che proprio nel Meridione il mercato del lavoro è più povero e fragile, sono indispensabili strumenti di compensazione e di sussidi, e la spesa assistenziale viene ritenuta improduttiva.

Ma il saggio che – forse – più di altri sarebbe bene fosse letto dalla ministra Calderone è quello scritto da Maristella Cacciapaglia (assegnista di ricerca all’Università di Milano) e Marina De Angelis (ricercatrice Inapp): “Traiettorie di lavoratori e lavoratrici vulnerabili oltre gli stereotipi del welfare”. Se lo leggesse scoprirebbe che quanti hanno percepito il reddito di cittadinanza non sono né fannulloni, né divanisti, e nemmeno mangia pane a tradimento. Sono lavoratori e lavoratrici poveri, intrappolati in percorsi di precarietà e discontinuità, e molti di loro sono stati coinvolti in progetti di cura e volontariato dei Progetti utili alla collettività, quindi la buona volontà (e non solo) l’avevano. Secondo le autrici, gli strumenti attivati dalla ministra, l’Assegno di inclusione e il Supporto per la formazione e il lavoro, non solo non sono la soluzione, ma non è certo con corsi di formazione spesso generici, se non aleatori, che si trova un’occupazione stabile e dignitosa. Anzi, rischiano di acuire lo stigma che queste persone si portano dietro.

Rosangela Lodigiani (docente di Sociologia dei processi economici e del lavoro all’Università cattolica del Sacro cuore) e Franca Maino (professoressa di Scienze politiche all’Università di Milano), inoltre, dimostrano, come diversamente da chi ci governa ritiene, che il volontariato e le attività non retribuite svolte per la collettività non sono affatto politiche attive del lavoro. Per di più se alcuni di quelli coinvolti percepiscono quest’obbligo come un modo per ricostruire un po’ di autostima, molti altri la percepiscono come una costrizione. Insomma è lavoro se è retribuito e accompagnato da tutele e diritti, altrimenti non è.

Qual è la strada da seguire? Una risposta prova a darla l’ultimo saggio della sezione monografica. Lo scrivono  Andrea Ciarini, Cecilia Fracassa e Denise Padula: “I programmi di Jobs guarantee. Un’analisi comparativa delle esperienze pilota in Francia, Austria e Belgio”. Queste esperienze partono da un paio di presupposti e da una convinzione. Il primo: creare lavoro si può; il secondo: creare lavoro è un processo di costruzione sociale. La convinzione è che per avere successo i piani occupazionali devono essere territoriali e aperti al coinvolgimento di tutti gli attori del territorio.

In quei Paesi le sperimentazioni stanno funzionando, mentre da noi esistono solo due esperienze simili, forse sarebbe meglio dire “esistevano” o “forse esisteranno”: il titolo è ambizioso, “territori a disoccupazione zero”, si sono progettati a Roma, li si può trovare tra i progetti del Pnrr della Capitale nel prospetto della rigenerazione urbana per i quartieri di Tor Bella Monaca e Corviale. Peccato che il ministro Fitto, con il beneplacito di Meloni, li abbia cassati quando mandò a Bruxelles il piano di correzione del Pnrr. Il sindaco Gualtieri si è impegnato ad andare avanti comunque, l’augurio è che ci riesca.

Ricca, di questo numero della Rivista, è la parte delle rubriche, in qualche modo collegate con la parte monografica. Innanzitutto la “Chiave di lettura” affidata alla riflessione dell’economista Laura Pennacchi: “Una riflessione filosofica inconsueta ma necessaria: il lavoro tra oscuramento teorico e invisibilità politica”. L’attualità è affidata alle professoresse Elena Granaglia e Annamaria Simonazzi che ragionano su “L’Europa di fronte ai radicali cambiamenti mondiali”. Mentre nel “Dibattito” si parla di Pnrr come occasione mancata, ne scrivono i professori Francesco Saraceno e Leonello Tronti. Infine il segretario nazionale Cgil Christian Ferrari si cimenta su una questione di grande attualità: “Autonomia differenziata e premierato: il tentativo della Destra di sovvertire la Costituzione”.