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Soli e senza il conforto dei propri cari. Per gli ospiti delle case di riposo, le visite sono state vietate già da tempo. Smarriti. Poche le notizie che arrivano dal mondo lì fuori. Pochissimi i contatti con le famiglie, preoccupate dalla cortina di silenzio che avvolge le strutture nelle quali sono, di fatto, confinati i propri anziani. Si guardano intorno, spaesati, e nel loro piccolo microcosmo continuano a vedere gli amici, gli altri ospiti, ammalarsi e morire. Anche a decine, di settimana in settimana. Se c’è un inferno nell’inferno del coronavirus, sono le rsa. Un girone dantesco a parte, in questo tempo in cui tutto ciò che la nostra civiltà considerava normale è stato messo in pausa. Le denunce sono arrivate tardi, tardissimo. Quando tutto questo ha avuto inizio, solo i sindacati, in prima linea la Cgil, lo Spi e la Funzione Pubblica, a livello nazionale e sul territorio, hanno lanciato l’allarme. Un grido caduto nel vuoto. Perché tutto, in queste settimane di pandemia, è stato considerato con la massima attenzione e raccontato con doverosa cura, tranne la mattanza nelle case di riposo. Proprio gli over 65, fin dall’inizio vittime predestinate del virus, proprio gli elementi più fragili della nostra società, sono stati dimenticati e abbandonati a se stessi.
Raccogliamo, ancora una volta, la testimonianza di Bergamo, zona rossa della zona rossa Italia. La provincia dove il primo aprile il quotidiano locale più letto, l’Eco, ha svelato numeri agghiaccianti. A raccoglierli una ricerca condotta insieme a InTwig, agenzia specializzata, basata sulle cifre fornite da 91 amministrazioni comunali che rappresentano oltre il 50 per cento della popolazione totale. L’indagine ha rivelato la stima dei dati reali. I contagiati, secondo il report, non sono 8.800, ma 288 mila. I morti non sono 2.060, riporta il giornale, ma 4.500. Tra questi ci sarebbero anche i circa 1.200 calcolati dalla Cgil nelle rsa del territorio. 1.200 contro i 120 in media degli ultimi anni. A confermarlo è Augusta Passera, segretaria generale dello Spi Cgil locale, il sindacato pensionati, reduce da un tavolo con la Prefettura, avvenuto in settimana, in cui ha chiesto, ancora una volta, chiarezza sugli elementi principali di questo dramma. “La sicurezza all’interno delle strutture, prima di tutto, e la comunicazione dei dati effettivi, perché i canali ufficiali continuano a sostenere cifre che, ormai lo sappiamo tutti, sono molto sottostimate. Il dato di 600 morti nelle case di riposo, circa il dieci per cento degli ospiti, non rappresenta la realtà. Sappiamo invece che sono almeno il doppio, da metà febbraio ad oggi. Ad Alzano Lombardo e a Nembro sfiorano, addirittura, il triplo. Abbiamo chiesto anche che venga attivato un canale di informazione chiara nei confronti delle famiglie, che sono state tenute all’oscuro e non sanno niente. Hanno i loro cari ospiti, chiusi nelle rsa e senza alcuna possibilità di ricevere visite, e in molti casi non sono mai riuscite neanche a sentirli telefonicamente. Per questo abbiamo chiesto, e ci è stato assicurato, che verranno acquistati tablet o smartphone per garantire videochiamate periodiche con i parenti”.
La sicurezza prima di tutto. Una priorità ignorata finora. Parla chiaro una survey condotta a livello nazionale e pubblicata il 31 marzo dall’Istituto Superiore di Sanità in collaborazione con il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale e consultabile sul sito dell’Iss. Oltre ai dati drammatici sui decessi, è nella slide dedicata alle criticità che si legge tra le righe, fino in fondo, quanto queste strutture, impreparate al ciclone che in poche settimane le ha investite, siano state letteralmente abbandonate a se stesse. Scrive nella tabella riassuntiva l’Istituto: “204 rsa (l’86% di quanti hanno risposto al sondaggio) hanno riportato difficoltà nel reperimento di Dispositivi di Protezione Individuale. 53 (il 22%) hanno richiesto maggiori informazioni circa le procedure da svolgere per contenere l’infezione. 85 (il 36%) riferiscono difficoltà per l’assenza di personale sanitario (per malattia). 28 (il 12%) hanno difficoltà nel trasferire i residenti affetti da Covid-19 in strutture ospedaliere. 63 (il 27%) dichiarano di avere difficoltà nell’isolamento dei residenti contagiati”. Dietro a ognuno di quelle centinaia di morti c’è una di queste motivazioni. A cominciare dalla penuria di dpi, il vero tormentone nazionale dell’emergenza coronavirus.
Segretaria, risulta anche a te? “Al tavolo – ci risponde Augusta Passera – erano presenti i responsabili dell’Ats, il vice prefetto e i responsabili delle case di riposo e ci hanno assicurato che questa settimana i dpi sarebbero aumentati. All’inizio, però, le rsa ne erano di fatto sprovviste. Una cosa che, personalmente, mi impressionò. A fine febbraio andai a trovare una mia zia, ospite di una struttura. Ci dissero che potevamo entrare uno alla volta e solo indossando la mascherina. Ma quando arrivai, mi resi conto che nessuno, tra il personale, ne era munito. Quando chiesi spiegazioni al direttore, mi rispose che non le avevano. E questa cosa è andata avanti per tanto, troppo tempo. Chi, se non i lavoratori, può aver portato il virus all’interno delle case di riposo, anche dopo la sospensione delle visite?”. Già, quanti contagi si sarebbero potuti evitare anche solo fornendo le rsa di mascherine destinate ai dipendenti?
L’altra questione delicatissima, ci spiega la segretaria dello Spi bergamasco, è quella del ricovero nelle case di riposo dei pazienti Covid in fase di remissione. Persone a un passo dalla guarigione, che non hanno più sintomi, non hanno più bisogno di ossigeno, ma non hanno ancora un tampone negativo. Un’esigenza nata dal numero di casi elevatissimo che ha investito la Lombardia e dalla necessità di liberare gli ospedali lasciando in isolamento i pazienti dimessi, ma ancora contagiosi. “Abbiamo chiesto che, in questo caso, ci sia una separazione totale tra gli ospiti e le zone dedicate ai ricoveri Covid. Non solo per quanto riguarda lo spazio fisico, ma anche per il personale impiegato. Per esempio, una delle più grandi case di riposo di Bergamo, che è il Carisma, ha garantito questa richiesta: aveva una palazzina esterna, l’ha destinata a questo uso e il personale che sarebbe stato in esubero, ad esempio i fisioterapisti, lo ha mandato in quel reparto. In questo caso la separazione è garantita, evitando così di innescare un rischio focolaio all’interno della casa di riposo”.
Segretaria, di fronte a questo dramma, cosa potete fare? “Continuare a controllare – ci risponde Augusta Passera – soprattutto i ricoveri dei pazienti Covid. Affinché non vengano permessi in case di riposo in cui non c’è la garanzia di poter salvaguardare gli anziani presenti. Questa è la cosa più importante in questo momento”. La necessità di sottolinearlo la dice lunga sulla situazione impazzita che state vivendo. C’è bisogno di controllare ciò che, in tempi normali, sarebbe ovvio. “Sì, decisamente. Adesso hai la sensazione che ti sfugga tutto. E quando finirà la pandemia le rsa avranno grandissimi problemi di altra natura, perché si stanno svuotando, andranno in crisi e a pagare sarà il personale. Basti pensare che da un mese a questa parte, chiaramente, sono stati bloccati gli accessi dei nuovi ospiti. Così la gente si trova a casa con persone spesso inabili e non autosufficienti, senza alcuna soluzione alternativa”.
Nella vostra provincia colpisce anche la decisione di molte famiglie di non chiamare più l’ambulanza quando un loro caro si ammala e soffre. Perché succede? “Perché la gente ha paura”, ammette sconsolata Augusta Passera. “L’ospedale non è più il luogo dove chi si ammala vuole andare, pensando che lì guarirà. Oggi e qui, chi si ammala pensa che dall’ospedale non uscirà più. Per questo tutti i malati continuano a controllarsi la saturazione (di ossigeno nel sangue, ndr) e a dire che, finché il dato è accettabile, è meglio restare a casa. Solo che poi la saturazione crolla di botto e in pochissimo tempo non resta più niente da fare”. Segretaria, cosa pensi, osservando la tua città, e come ci racconteresti quello che state vivendo? “La gente ha davvero paura. È surreale. Dopo dieci giorni pensavo di vivere in un film di fantascienza. Una sensazione di totale estraniamento. C’è un silenzio in città che non ho mai sentito”.
E il futuro? “Sono ben poco ottimista”, risponde malinconica la segretaria dello Spi Cgil bergamasco. “Non credo che la gente cambierà. Tutto quello che sta accadendo è così tanto, ma è così poco per far cambiare le persone. Spero rimanga chiara almeno l’idea di quel che è il necessario e quel che è il superfluo nelle nostre vite. Di quanto è importante coltivare i rapporti con le altre persone, con quelli cui vogliamo bene. Spero che gli italiani e i lombardi, a maggior ragione, siano riusciti a capire il danno che si è compiuto svendendo la sanità. E quanto questo riguardi da vicino il nostro stesso diritto alla vita. Ma temo che politicamente cominceremo, subito dopo, a cercare le colpe, non le responsabilità. A cercare le colpe e a scaricarcele l’un l’altro”.