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Se invece di far propaganda si promuovesse davvero la genitorialità condivisa ne gioverebbero i bimbi e le bimbe, le madri e anche i padri. E si darebbe un contributo reale a invertire la curva negativa della natalità. Non solo: si aiuterebbe il superamento di stereotipi ancora vivi che vogliono la donna prima di tutto madre, e gli uomini dedicati al lavoro produttivo. E si contribuirebbe a migliorare il tasso di occupazione femminile indispensabile al Paese e alle donne stesse.
Nel giorno della Festa del papà fa bene leggere lo studio di Save The Children che, analizzando i dati dell’Inps, attesta come sia assai aumentato il numero dei lavoratori che utilizza il congedo di paternità.
A casa con i figli
Era il 2012, il Parlamento approvò la norma che introduceva il congedo di paternità: un giorno obbligatorio e due facoltativi. L’anno in cui la norma entrò in vigore la utilizzò solo il 19,25% degli aventi diritto: 51.745 padri rimasero a casa insieme il nuovo nato. Da allora ad oggi le cose son migliorate, sia perché i giorni di congedo obbligatorio sono saliti a 10 sia perché sono aumentati quanti avendone diritto ne usufruiscono: “Nel 2022, sono stati più di 3 su 5 (il 64,02%), cioè 172.797 padri, con poche differenze a seconda che si tratti di genitori del primo (65,88%), secondo o successivo figlio (62,08%)”.
Segnale positivo
Sapere che la condivisione del lavoro di cura e della genitorialità comincia a essere diffusa è certamente una buona notizia, anche se non sufficiente. Secondo Daniela Barbaresi, segretaria confederale della Cgil: “L’inverno demografico non può essere affrontato, come fa il governo, con bonus o interventi spot, ma con politiche forti e coerenti”. Certo, passare da uno a dieci giorni di congedo obbligatorio è cosa buona ma da sola serve davvero a poco. Aggiunge infatti Barbaresi: “Quando due anni fa, con il D.Lgs n. 105/2022 venne data attuazione alla direttiva Ue 2019/1158 e ampliato il congedo di paternità obbligatorio portando l’astensione dal lavoro a 10 giorni, abbiamo valutato positivamente quella scelta in quanto andava nella giusta direzione, ma del tutto insufficiente così come abbiamo considerato debole l’obbligo del congedo di paternità con vincoli minimali rispetto al congedo obbligatorio di maternità”.
I papà che rimangono a casa
Gli stereotipi sono duri a morire, ma anche le condizioni materiali e lavorative hanno il loro peso. Secondo Save the Children a stare a casa sono lavoratori giovani, tra i 30 e 39 anni (oltre il 65 per cento) mentre quelli più grandi, tra i 40 e i 49 un po’ meno. È più probabile che il padre usufruisca del congedo di paternità se lavora in aziende medio-grandi. Fra quelle con oltre 100 dipendenti, infatti, l’utilizzo è pari al 77%, mentre scende al 67,8% in quelle che hanno fra i 51 e i 100 dipendenti, al 60% fra quelle che hanno fra i 16 e i 50 dipendenti.
Il contratto conta
Sarà un caso ma a stare a casa sono i lavoratori che risiedono al Nord con contratto a tempo indeterminato e con un reddito medio alto. Qualche esempio? Nelle province di Crotone (24%), Trapani (27%), Agrigento e Vibo Valentia (29% in entrambe le province) non si arriva al 30 per cento, mentre valori superiori all’80% si registrano nelle province di Bergamo e Lecco (81%), Treviso (82%), Vicenza (83%) e Pordenone (85%). Ancora: tra i lavoratori con un contratto a tempo indeterminato la percentuale sfiora il 70% (69,49%), tra quelli con contratto a tempo determinato scende al 35,95%, mentre tra gli stagionali arriva solo al 19,72%.
Favorire la condivisione della genitorialità
Che a occuparsi dei figli siano entrambi i genitori fa bene innanzitutto a bimbi e bimbe. Occorre, allora, promuovere politiche che vadano in questa direzione. Ricorda Barbaresi: “Da tempo la Cgil evidenzia la necessità di un congedo paritario di sei mesi considerandolo determinante per realizzare l’obiettivo di un’equa condivisione delle responsabilità familiari e del lavoro di cura, nella prospettiva di un’autentica parità di genere”. Concorda Giorgia D’Errico, direttrice Affari pubblici e relazioni istituzionali di Save the Children: “È necessario sostenere questo cambiamento, andare nella direzione di un congedo di paternità per tutti i lavoratori, non solo i dipendenti, garantendo che i datori di lavoro adempiano all’obbligo di riconoscere tale diritto, fino ad arrivare all’equiparazione con il congedo obbligatorio di maternità. Una misura, questa, anche a sostegno delle neomamme, in un periodo della vita che troppo spesso si rileva difficile e caratterizzato da sentimenti di inadeguatezza e solitudine”.
Bonus e retorica non sono utili
Per far nascere tutti i figli desiderati occorre innanzitutto che aumenti l’occupazione femminile, quella di qualità e stabile, che diminuisca la precarietà di uomini e donne, che lo Stato promuova politiche non solo di condivisione della genitorialità ma in grado di spostare dalle donne ai servizi pubblici il lavoro di cura nei confronti dei bambini e degli anziani. Chiosa la dirigente della Cgil: “Quelli sulla natalità sono numeri di una vera e propria emergenza demografica che richiede misure e politiche integrate e strutturali: riguardano congedi ben remunerati e paritari, servizi di cura e servizi educativi per la prima infanzia, universali e gratuiti (mentre oggi i posti negli asili nido sono garantiti solo a un bambino su quattro) e scuole a tempo pieno, soprattutto per garantire pari opportunità e contrastare la povertà educativa. E naturalmente serve occupazione, orari, retribuzioni, stabilità e qualità del lavoro. L’inverno demografico – conclude Barbaresi - non può essere affrontato, come fa il governo, con bonus o interventi spot, ma con politiche forti e coerenti”.