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L’Evco è uno dei fiori all’occhiello dell’industria innovativa di Belluno. Produce sofisticati strumenti elettronici di controllo per la temperatura di frigoriferi e forni industriali: il suo prodotto di punta è un tablet che, appunto, controlla i dispositivi da remoto. Tutto bene se non fosse che, con un’interpretazione “elastica” delle deroghe previste dalle disposizioni con cui il governo ha deciso di fermare tutte le produzioni non essenziali a causa del coronavirus, l’azienda non ne vuol sentire di chiudere temporaneamente i battenti.
“La giustificazione di questa decisione secondo – spiega Carlo Fiori, rsu Fiom della Evco – starebbe nel fatto che le produzioni sarebbero collegate alle filiere dell’agroalimentare e dell’elettromedicale che, come noto, sono autorizzate ad andare avanti”. Ma è una giustificazione sorprendente, perché con l’agroalimentare l’Evco ha sicuramente assai poco a che fare: non basta certo lavorare per forni e frigo industriali per farne parte. Quanto all’elettromediale, attacca Fiori, “è vero che costruiamo qualche strumento di controllo per apparecchi di questo tipo, ma parliamo di poche decine di pezzi, basterebbero quattro persone nel reparto produttivo per ottemperare a queste richieste e invece la fabbrica va a pieno regime”.
L’azienda impiega poco più di 100 lavoratori e tutti, ci assicura il delegato sindacale “sono spaventati, hanno paura di andare al lavoro, molti a casa hanno bambini, o sono a contatto con persone anziane. Io e alcuni altri stiamo utilizzando giorni di permessi arretrati. Personalmente mi alterno a casa insieme ai figli con mia moglie che lavora come me alla Evco: ma quanto può durare”?
Tra l’altro, la metà del fatturato dell’azienda proviene da commesse estere, in particolare Russia e Cina: di quale portata può essere, dunque, il suo contributo alla produzione di beni essenziali per il nostro paese? Il rammarico per il comportamento dell’azienda, aggiunge il sindacalista (che è anche Rls), “è che fino all’ultimo decreto la direzione ha fatto tutto ciò che era possibile per garantire sicurezza: ha aumento le distanze tra i lavoratori portandole a oltre due metri, ha acquistato disinfettanti, gel e le mascherine reperibili sul mercato. Poi, però, è arrivata la decisione di andare avanti e la richiesta di deroga”.
Il problema delle deroghe
Questo delle deroghe alla chiusura previsto nel Dpcm del 22 marzo è un nodo di non semplice soluzione che in alcuni casi diventa un cavallo di Troia utilizzato dalle aziende per poter continuare a produrre indisturbate. Secondo il dispositivo la deroga può essere accordata per due ragioni: quando le attività “sono funzionali ad assicurare la continuità della filiera” che produce beni o servizi essenziali, oppure nel caso di produzioni a ciclo continuo tali che la loro interruzione potrebbe danneggiare gli impianti o mettere a rischio la salute e la sicurezza.
Le richieste vanno inviate al Prefetto che, si legge sempre nel decreto “può sospendere le predette attività qualora non sussistano le condizioni”. Il problema sta nel fatto le Prefetture sono letteralmente invase da comunicazioni di questo tipo, ed è difficile pensare che possano evaderle nel breve periodo: intanto però le fabbriche vanno avanti esponendo al rischio i propri lavoratori. Si rischia, insomma, che il meccanismo produca una sorta di silenzio assenso viste le numerose sono grigie che sussistono tra codice Ateco e filiere.
Nelle Prefetture del solo Veneto, ad esempio, è arrivato lo stesso numero di richieste di deroga della Lombardia, pur in presenza di un apparato produttivo che è la metà di quello lombardo. Parliamo di ben 11.970 comunicazioni: 2.100 imprese hanno chiesto la deroga nel veneziano; 2.300 nel padovano; 2.700 nel vicentino; 2.200 nel veronese; 2.100 nel trevigiano; 400 nel bellunese; 170 nel rodigino.
È chiaro che a questo punto, viste le difficoltà, il ruolo del sindacato come sentinella sul territorio risulta essenziale. “Insieme a Cisl e Uil abbiamo attivato il confronto con tutte le Prefetture, registrando un atteggiamento diffuso di disponibilità – commenta Christian Ferrari, segretario generale della Cgil Veneto –. Le organizzazioni dei lavoratori sono nelle condizioni di collaborare fattivamente con gli organismi che devono vagliare le domande, segnalando – dopo attente verifiche – le attività ritenute non essenziali”.
Diverso invece l'atteggiamento delle organizzazioni datoriali, che non nascondono affatto l'insofferenza, anzi, attacca Ferrari, “una evidente contrarietà rispetto ai provvedimenti del Governo e, in particolare, al ruolo che le organizzazioni hanno saputo conquistarsi, grazie all'interlocuzione con l'Esecutivo e – soprattutto – per merito delle mobilitazioni e degli scioperi dei lavoratori. È molto improbabile che questo tsunami di domande sia dovuto allo spontaneismo delle singole aziende. Siamo con ogni probabilità di fronte a un input ‘organizzato’, a una direttiva precisa delle associazioni di categoria”.
Veneto: una mappa delle chiusure
Allo stato attuale, questa la situazione regionale così come mappata dalla Cgil Veneto. Ci sono una serie di aziende del comparto metalmeccanico che hanno continuato a lavorare al di fuori delle filiere indispensabili, particolarmente nelle zone di Belluno e di Treviso. Cosa che le strutture sindacali hanno prontamente segnalato, ottenendo il fermo da parte delle prefetture. In Safilo, una delle realtà più importanti a livello regionale, è stato necessario proclamare lo sciopero per fermare una produzione che non aveva ragione di continuare, anche alla luce di scelte opposte degli altri big del settore occhialeria che hanno sospeso l'attività. Anche a Vicenza sono state registrate forzature da parte di qualche azienda chimica e metalmeccanica, che hanno preteso di andare avanti per alimentare gli ultimi canali di export rimasti attivi o per fare magazzino. A Verona i problemi riguardano alcune acciaierie e altre aziende “sedicenti” fornitrici della filiera aerospazio e sanitaria. Il più delle volte l’asserito collegamento con le attività essenziali è pretestuoso: una quota assolutamente marginale della produzione viene utilizzata come pretesto per mantenere i pieni livelli.
“Complessivamente – commenta Ferrari – l’azione di controllo, vigilanza e segnalazione dei sindacati sta contenendo la spinta dell'apparato produttivo a proseguire come nulla fosse. Gran parte della produzione veneta, a partire dalle grandi imprese, è ferma. Il problema, come sempre, è per le piccole imprese in cui il sindacato non c'è. In questo caso la funzione dei Prefetti è decisiva”.
Un caso di successo: la Psm di Treviso
Tra i casi di successo dell’azione sindacale va segnalato quello della Psm di Treviso, azienda del gruppo Soimec che occupa 50 lavoratori e produce trivelle per ispezioni geotermiche. Qui il successo è doppio perché, come racconta Massimo Baggio, della Fiom di Treviso, “l’azienda non è sindacalizzata, ma fortunatamente siamo stati contattati dai lavoratori che ci hanno segnalato la situazione a loro giudizio non in regola e una forte preoccupazione per la propria sicurezza”. Psm, infatti, pretendeva di continuare a lavorare perché, a suo dire, legata alla filiera dell’ingegneria civile, “ma tutte le aziende concorrenti sul territorio avevano deciso lo stop – ci dice Baggio –, quindi era evidente che si cercava anche di sfruttare questo aspetto. Per fronteggiare questa situazione lo sciopero non era ipotizzabile: avremmo messo pesantemente a rischio i lavoratori e dunque abbiamo chiesto al Prefetto di verificare la legittimità dell’impresa ad andare avanti nella produzione. In un paio di giorni Psm è stata costretta a fermarsi e ora bisognerà naturalmente fare in modo che i lavoratori abbiamo la copertura degli ammortizzatori sociali”.
In conclusione Baggio tiene a specificare un aspetto: “Noi non vogliamo accanirci con le aziende per farle chiudere. Pretendiamo il rispetto della sicurezza dei lavoratori. Come sindacato, quando ci saranno le condizioni per poter riprendere le attività saremo i primi a festeggiare”.