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La realtà si impone sulla propaganda: purtroppo non basta una premier donna per migliorare le condizioni sociali economiche e occupazionali delle altre donne. Censis e Inps dimostrano che l’Italia è – purtroppo – ancora un paese nel quale si pensa che la maternità sia un fatto privato delle donne la cui funzione primaria debba essere proprio quella della riproduzione e della cura gratuita tra le mura domestiche.
Numeri amari
Non solo l’Italia continua ad essere ultima in classifica per occupazione femminile in Europa, i dati dimostrano – anche – che i figli sono incombenza quasi esclusiva delle madri e proprio per questo le donne al lavoro sono poche. Secondo il Censis le disparità di genere permangono, il tasso di occupazione femminile rimane basso, assai indietro rispetto a Francia Germania e Spagna e se le donne lavorano, alla nascita dei bimbi lasciano l’occupazione. Per gli uomini è vero il contrario. “Il tasso di occupazione dei maschi con figli è pari all’89,3%, quello dei maschi senza figli al 76,7%”, mentre “per le donne senza figli è pari al 66,3% e per quelle con figli al 58,6%. Il divario tra il tasso di occupazione delle donne con figli e quello degli uomini con figli in termini di punti percentuali è pari in Italia a -30,7”.
Giudizio inevitabilmente amaro
“Occorre rendere il lavoro più paritario e meno discriminante, il quadro della condizione delle donne è davvero preoccupante e i divari di genere nel mercato del lavoro e nel sistema previdenziale sono inaccettabili. Ma anche su questo il governo si limita alle parole e agli spot, e se interviene lo fa per peggiorare ulteriormente la situazione, come è accaduto con le pensioni”. È quanto dichiara la segretaria confederale della Cgil Lara Ghiglione a proposito dei dati diffusi ieri da Censis e Inps.
Tante parole e pochi fatti
Addirittura è stato battezzato da Meloni un ministero per la Famiglia la natalità e le pari opportunità, in tutti i consessi si pronunciano parole enfatiche che vorrebbero spingere le donne a far più figli e poi i provvedimenti che si promuovono non fanno altro che spingere le madri dentro le mura domestiche. Un esempio? Nella revisione del Pnrr presentata a Bruxelles la scorsa estate vi è il taglio di ben 100 mila posti negli asilo nido. E la decontribuzione per le lavoratrici con figli è più propaganda che altro: riguarderà pochissime donne che hanno la fortuna di aver un’occupazione a tempo indeterminato, ma non come badanti o domestiche perché per loro lo sconto dei contributi previdenziali non vale. E a parlare di previdenza non si può non prendere atto che il differenziale pensionistico tra donne e uomini ammonta a ben 40 miliardi. E Meloni ha ulteriormente peggiorato i requisiti pensionistici per le donne non riconoscendo affatto il lavoro di cura.
Maternità, ovvero discriminazione
Le cronache raccontano (lo fa Giorgio Sbordoni per Collettiva) che a Nuoro a una ragazza è stato chiesto il test di gravidanza da fare al lavoro per la conferma dell’assunzione alla fine del periodo di prova. Dopo pochi mesi la ragazza effettivamente è in gravidanza e arriva inesorabile il licenziamento. Roccella e Meloni hanno nulla da dire e nulla da fare in proposito? La verità è che coerentemente con l’ideologia “Dio patria e famiglia” che si è insediata a Palazzo Chigi, la procreazione deve essere questione privata delle donne che però devono garantire figli alla patria. È ancora il Censis a dirci come per assecondare il desiderio di maternità le donne che lavorano siano costrette a smettere di farlo: “Le dimissioni e risoluzioni consensuali di lavoratori genitori erano 39.738 nel 2017 e sono salite a oltre 61 mila nel 2022”. E a firmarle sono il 41,7% delle lavoratrici e solo il 2,8% dei lavoratori a dimostrazione che la genitorialità è ancora ritenuta questione di “femminile”.
Incrociare Censis e Inps
Se si osserva la realtà senza i paraocchi, si scopre che insieme alla difficoltà di conciliare lavoro in produzione e lavoro di cura, esiste anche un’altra ragione che porta le lavoratrici alle dimissioni alla nascita dei figli: stipendi e salari femminili sono più bassi, a volte assai più bassi, di quelli maschili. E assai più basse saranno le pensioni viste le buste paghe più leggere, il part-time involontario e i percorsi professionali discontinui. Commenta la segretaria della Cgil: "Permane una forte segregazione orizzontale e verticale che evidenzia come le donne siano ritenute adatte a lavorare solo in alcuni settori tradizionali e non siano considerate meritevoli di rivestire posizioni di dirigenza, che sono occupate solo per il 18% da lavoratrici. Il ruolo principale che viene riconosciuto alle donne è quindi ancora quello riproduttivo a discapito di quello produttivo”.
"Anche per questa ragione – sostiene Ghiglione – permane un forte divario retributivo, che arriva al 40% nel settore privato. In un Paese dove il lavoro delle donne possiede un minor valore può apparire normale che siano retribuite meno".
Cambiare le politiche si può, si deve
Ma il governo, non accettando il confronto con le organizzazioni sindacali, può far finta di non sapere che è possibile cambiare questa perversa realtà. Magari reintroducendo i 100 mila posti negli asilo nido cancellati con un tratto di penna dal Pnrr. Qualche suggerimento lo fornisce anche Lara Ghiglione: "È necessario introdurre il congedo paritario obbligatorio per i padri e promuovere il valore della genitorialità attraverso un forte investimento nei servizi pubblici, a partire dai servizi educativi da 0 a 6 anni. Ma i nidi vanno creati e non è sufficiente introdurre bonus". E magari introducendo anche il salario minimo legale visto che spesso il lavoro povero è donna.
"Conoscere i dati è importante se li utilizziamo per generare un cambiamento, altrimenti rimangono numeri. Per adesso – conclude la dirigente sindacale – registriamo un fallimento da parte del Governo anche sul fronte della parità di genere".