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La lettura del documento del governo francese “Plan de soutien à l’automobile. Pour une industrie verte et compétitive” può generare un effetto duplice in un osservatore italiano interessato alle prospettive dell’industria dopo il Coronavirus. Da un lato, desta un senso di rammarico perché il nostro governo non è mai stato altrettanto reciso nel valorizzare le ragioni dell’industria ai fini dello sviluppo economico di domani né tantomeno ha mai usato espressioni altrettanto nette nell’enfatizzare il rilievo del sistema dell’auto (nel testo se ne parla come di “una posta strategica per l’economia francese”). Dall’altro, suscita tuttavia anche una reazione di insoddisfazione perché il ragionamento sull’automobile è condotto per intero all’interno della cornice nazionale, come se la dimensione europea non esistesse e come se la sorte dei gruppi francesi non dipendesse per buona misura dall’integrazione con i sistemi industriali delle altre nazioni (con l’Italia e gli Stati Uniti, visto che Psa si fonderà a breve con Fca; col Giappone, visto che Nissan e Mitsubishi sono alleati strategici di lungo periodo di Renault).
La logica dell’integrazione stride almeno in parte con l’enfasi posta sulla ricerca di una condizione di primato per la Francia, cui è assegnato, neanche troppo sottotraccia, il compito di sfidare la posizione dell’industria tedesca. Il piano francese dimostra ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, l’assenza di un coordinamento europeo sulla politica industriale dell’automobile, lasciata di fatto alle ambizioni egemoniche dei maggiori paesi produttori, che non vogliono farsi sottrarre un ruolo di guida nella transizione tecnologica. Così, il riferimento all’indirizzo ecologico finisce di fatto con l’essere sfumato, giacché sarebbe molto più efficace se fosse calato nell’orizzonte della politica continentale.
Ciò premesso, fa bene il governo francese a insistere sul valore della produzione automobilistica, pari nel 2019 a 155 miliardi di euro, grazie a 2,2 milioni di veicoli realizzati da 400.000 occupati, con un export che ha raggiunto i 51 miliardi. Cifre rilevanti, che rappresentano il 18% del giro d’affari complessivo dell’industria manifatturiera francese e che rinviano a un’importante base produttiva e tecnologica cui il governo non vuole rinunciare. Sembra di poter concludere che il governo francese intenda perseguire la salvaguardia dell’industria automobilistica nazionale ponendo l’obiettivo per il 2025 di una produzione di un milione di vetture elettriche. Uno scopo simile implica una forte mobilitazione che deve iniziare fin da oggi, sia sul fronte del mercato e dei consumatori, mediante una gamma differenziata d’incentivi all’acquisto delle vetture elettriche, sia sul fronte della produzione, creando le condizioni per rafforzare le teste della filiera, che dovranno rimanere ben salde in Francia.
Non basta dunque il semplice mantenimento delle strutture esistenti, ma occorre il loro potenziamento. E a questo proposito il governo francese non è parco di parole, quando richiama lo sforzo che va fatto per la localizzazione sia dei centri di Ricerca&Sviluppo sia della capacità produttiva. Determinante appare lo sforzo per dotare la Francia di un grande impianto per la fabbricazione delle batterie. Ma l’elettrico per espandersi ha altresì bisogno di un’infrastrutturazione estremamente articolata: di qui allora l’attivazione di 100.000 punti di ricarica su tutto il territorio nazionale entro il 2021, con un’attenzione speciale per le stazioni di rifornimento situate lungo i maggiori assi di comunicazione stradale.
Ci si potrebbe soffermare su vari altri aspetti del piano francese. Vale però la pena di insistere sul carattere di urgenza che connota il documento: è evidente che la Francia si sente incalzata dal deterioramento della sua situazione economica nel contesto della crisi generale e che avverte la portata della minaccia alla propria stabilità. In campo automobilistico, all’attivismo e alla capacità d’iniziativa di Carlos Tavares e di Psa ha fatto da contraltare il rapidissimo declino di Renault dopo l’arresto e la prigionia in Giappone di Carlos Ghosn.
Le istituzioni francesi sono risolute a contrastare la possibilità di un declino del sistema dell’auto nel loro paese, un’ipotesi che vogliono sventare con tutte le loro forze. E per farlo ipotizzano uno scenario interventista, in cui lo Stato dirige e orienta la presenza produttiva azionando tutte le leve a sua disposizione, agendo cioè sia dal lato dell’offerta che da quello della domanda. Tutto questo allo scopo di favorire il reshoring, accrescere la capacità strategica dei suoi soggetti maggiori, fare dell’industria francese il polo trainante della nuova mobilità elettronica.
Sarà il tempo a stabilire se questi obiettivi siano raggiungibili e non siano invece sovraordinati rispetto a una dinamica evolutiva dell’auto che probabilmente non può essere pianificata fino a questo punto. Certo, la logica che informa il piano è guidata da una volontà di ristabilire e confermare la potenza economica della Francia, facendo intendere che i soggetti d’impresa debbano muoversi in consonanza con le finalità e gli interessi nazionali. Un approccio del genere non concede molto margine all’interazione con le componenti industriali di diversa estrazione. Renault dovrà porre estrema attenzione nella riscrittura del patto con Nissan, riconoscendo più spazio all’alleato giapponese. Ancor più complicato il compito di Psa, che si accinge a una fusione in cui dovrà tener conto di motivi e interessi che non coincidono con quelli della Francia industriale. Inevitabile, per esempio, chiedersi quale sarà nel nuovo gruppo che sorgerà dalla fusione con Psa il posto delle produzioni italiane.
Se l’auto elettrica costituisce un obiettivo prioritario della politica industriale francese, che vuol fare di essa il cardine della propria presenza nel sistema della nuova mobilità, quale rilievo potrà ottenere la 500 elettrica, che sta entrando in lavorazione a Mirafiori? E ancora: quali decisioni di investimento saranno attuate per marchi come Alfa Romeo e Maserati che ora acquistano un risalto ancor più cruciale per l’offerta automobilistica italiana? L’assenza di uno scenario di riferimento europeo rende questi interrogativi urgenti, dal momento che le linee attuative del piano francese dovranno essere le più celeri.
A confronto delle intenzioni francesi risalta ancor più l’indeterminatezza dello scenario italiano, che finora il nostro governo non ha precisato in alcun modo. Non tanto e non solo per un problema di consistenza finanziaria: infondo il piano francese mobilita risorse per 8 miliardi di euro, laddove per il prestito a Fiat Chrsyler sono in campo oltre 6 miliardi. Ciò che sorprende nell’atteggiamento del governo italiano è che non paia nemmeno interessato a costituire una sponda per il nostro automotive, come se non fosse necessario per assicurare ad esso un domani.
Senza un retroterra politico istituzionale, esso non disporrà di risorse di sistema su cui contare, sicché non si comprende come ci si potrà avvalere delle opportunità che dovrebbero discendere dalla maggiore fusione in corso. Né, d’altra parte, nulla viene detto per quelle importanti componenti della nostra filiera automotive che hanno nei produttori tedeschi i loro referenti. Quanto alla possibilità di sperimentare attività innovative di frontiera nel campo della nuova mobilità, costruendo una matrice che colleghi università, centri di ricerca e imprese, non si intravede alcun segnale di impegno. Eppure, è in questa direzione che si dovrebbe andare, se non ci si vuole rassegnare a un destino di completa subalternità in un gioco che sarà nelle mani di altri. Inoltre è in questo ambito che esistono le competenze e le opportunità migliori per impiegare risorse che altrimenti rischiano di essere sottoutilizzate, se non addirittura di andare disperse. Così il futuro dell’automotive italiano permane un enigma, un’equazione con troppe incognite per poter trovare una soluzione, ciò che getta un’ombra pesante sul nostro possibile futuro industriale.
Plan de soutien à l’automobile. Pour une industrie verte et compétitive