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All’Università di Torino esiste un dipartimento particolare, si occupa di “Culture, Politica e Società” e ad esser particolare non è solo il dipartimento ma anche l’insegnamento assegnato, per suo interesse e passione, alla professoressa Marianna Filandri: “Sociologia delle disuguaglianze economiche e sociali e analisi dei dati per la ricerca applicata e la valutazione delle politiche”.
Nella presentazione della sua ultima fatica editoriale pubblicata da Laterza, Lavorare non basta, si legge: “Il tasso di occupazione è considerato un indicatore fondamentale dello sviluppo di un paese: peccato che sia sempre più elevato anche in Europa il numero di lavoratori poveri. La costruzione delle identità personali e collettive è ancora legata al proprio ruolo professionale. Peccato che i ruoli professionali siano sempre più precari e frammentati. Insomma, il lavoro non basta più: sono necessarie urgenti misure che restituiscano stabilità economica e, con questa, fiducia nel futuro. L'introduzione del salario minimo, la promozione di contratti stabili e la revisione della tassazione sul lavoro rispetto a quella sui patrimoni sono i primi interventi urgenti che aiuterebbero il benessere collettivo”. Con lei parliamo della particolarità dell’occupazione femminile italiana.
In Italia lavorare non sempre basta a garantire una vita dignitosa a sé e alla propria famiglia, così come imporrebbe la Costituzione. Questa affermazione, però, per le donne impone una premessa, prima di tutto bisognerebbe che un'occupazione l'avessero.
Prima ancora di discutere della qualità del lavoro di uomini e donne, dobbiamo infatti discutere della quantità di lavoro. Il nostro è un paese che ha un tasso di occupazione della popolazione in età da lavoro molto basso. I dati più recenti Istat ci dicono che non arriva al 62%. Quelli dell'occupazione femminile sono ancora più bassi, quindi non solo abbiamo poco lavoro in generale, ma in Italia le donne hanno ancora meno lavoro. La differenza tra uomini e donne nella partecipazione al mercato del lavoro, che ovviamente cambia a seconda del titolo di studio, è di circa 20 punti percentuali.
Se vogliamo continuare con il triste gioco delle differenze, se mediamente una donna su due è occupata, nelle regioni del Sud ad avere lavoro è solo una su tre. Si somma differenza a differenza.
Sì. Come sempre i fenomeni sociali ed economici sono complessi, quindi non possiamo pensare che sia solo una questione esclusivamente di preferenze rispetto alla partecipazione al mercato del lavoro delle donne, di vincoli o di scelte dei datori di lavoro o di un mercato più ostile. Esistono anche una serie di difficoltà legate alla conciliazione. I lavori e i tempi della cura, che sono quasi sempre sulle spalle delle donne, diventano così un ostacolo a partecipare al mercato del lavoro quando non ci sono servizi, quando le donne non possono appoggiarsi ad altri aiuti familiari o, a causa dei bassi salari, non possono comprare sul mercato aiuti professionali. Tutti quelli citati sono indicatori che descrivono una situazione di svantaggio femminile, in Italia più che in Europa.
Anche gli ultimi dati attestano che, nonostante l'aumento dell'occupazione generale e di quella femminile registrato negli ultimi due anni, il nostro Paese rimane comunque buon ultimo in Europa per occupazione femminile…
Occorre domandarsi quali siano le ragioni economiche e culturali dietro questo gap. Sicuramente una ragione, lo dicevo, sta nei pochi cambiamenti nella divisione del lavoro familiare con un grande carico per la componente femminile. Poi esistono e persistono, nel nostro Paese, dei pregiudizi contro il lavoro femminile. Ancora una parte di persone ritiene che il lavoro femminile riduca la fecondità e che le donne che lavorano sono madri peggiori. Ma c’è di più. Il grado di consenso all'affermazione “sei d'accordo che la precedenza sia data agli uomini nel mercato del lavoro in caso di scarsità di lavoro?”, il 21% degli uomini italiani si dichiara d'accordo, più di un quinto, ma anche il 17% delle donne. Insieme a questi veri e propri pregiudizi, a limitare la presenza femminile nel mercato del lavoro è anche il mancato sviluppo di politiche di conciliazione, non è un caso che la situazione si aggravi soprattutto quando nasce un figlio e molte madri occupate lasciano il lavoro. Le stime ci dicono che due terzi delle donne occupate dichiarano di avere avuto difficoltà a conciliare la vita familiare lavorativa per la scarsa flessibilità del mercato del lavoro, per mancanza di aiuti familiari o anche, in alcuni casi, per politiche aziendali imprenditoriali.
Esistono anche delle altre diseguaglianze più nascoste?
Esiste anche un tema di qualità del lavoro. Il nostro mercato del lavoro offre occupazioni poco pagate, precarie o poco qualificate. La domanda di lavoro italiana è più orientata a lavori con in cui le qualifiche sono meno necessarie. Su questo le donne sono doppiamente svantaggiate: da un lato perché soffrono della discriminazione di essere pagate meno per lo stesso lavoro e con lo stesso titolo di studio dei colleghi. Ma poi sono anche più frequentemente occupate in lavori precari o a basso salario. Aggiungerei che l'occupazione femminile non è una questione solo di equità, ma è anche questione di convenienza. Aumentarla significa aumentare il prodotto interno lordo, sia direttamente tramite l'aumento dell'occupazione, sia indirettamente. Quindi l’occupazione femminile è volano per la crescita economica.
A contraddistinguere l'occupazione femminile, quindi, è il lavoro precario, il part-time e – aggiungo io – lavoro povero.
Si. E ha fatto bene ad aggiungere il part-time, anche se spesso, erroneamente, è considerato uno strumento di conciliazione. In realtà i dati ci dicono che due terzi delle donne in part-time si trovano in quella condizione involontariamente: se questo prevede come orario di lavoro dalle 15 alle 19 e i figli vanno a scuola dalle 8 alle 13, il trucco è svelato. Occorre, poi, considerare il fatto che il reddito familiare è composto dalla somma degli occupati della famiglia: molto spesso il lavoro stabile e dal reddito più alto è quello dell’uomo e il reddito femminile è più basso e magari anche saltuario ed è quindi considerato reddito aggiuntivo. Questo è però un paradosso, perché sono le donne a essere più frequentemente in una condizione di svantaggio nel mercato del lavoro, ma spesso sono gli uomini a essere lavoratori poveri.
Insomma tutto concorre a far percepire le donne come marginali nel mercato del lavoro e aggiuntive, non fondamentali nella produzione del reddito familiare.
Sono i dati a dirlo. In Italia esiste un forte gender gap salariale anche se leggermente meno marcato che in altri paesi europei, ma questa rischia di essere una “dispercezione” ottica, perché da noi le occupate sono molto meno e quelle che rimangono nel mercato del lavoro sono più spesso le donne un pochino più istruite, con occupazione migliore, e quindi pagate di più. E proprio perché è ancora diffusa questa idea che quello della donna è eventualmente un secondo reddito o non sia l'unico reddito necessario i costi di conciliazione sono molto elevati e quindi le donne tendono a uscire dal mercato del lavoro. La soluzione sta nell’aumentare i salari e spostare sui servizi gli strumenti di conciliazione.
I settori a predominanza di occupazione femminile hanno i salari contrattuali più bassi. Esiste una relazione tra una segregazione femminile nel mercato del lavoro e salario?
Questa è un'ottima osservazione. Esiste una segregazione non solo verticale: non solo, cioè, le donne hanno meno opportunità degli uomini di ricoprire ruoli dirigenziali, ma esiste anche una segregazione orizzontale che è proprio riferita alla concentrazione dell'occupazione femminile in un numero ristretto di professioni. La contrattazione collettiva in alcuni settori prevalentemente maschili è più forte della contrattazione collettiva in altri settori che invece magari vedono una partecipazione maggiore della componente femminile. Aggiungo un altro elemento. Molto spesso è lo stesso settore pubblico ad offrire lavoro non di qualità. Molte donne lavorano in imprese o cooperative che offrono servizi a enti pubblici: i salari orari sono molto bassi e il comparto pubblico si giova di questo basso costo del lavoro e la maggior parte di questi dipendenti è donna. Se penso alla scuola poi osservo che è assai diffusa la precarietà per cui lo Stato assegna supplenze annuali, il che significa che il contratto di lavoro va da settembre a giugno lasciando, non solo, senza salario i docenti per due mesi ma evitando di dover pagare ferie e scatti di anzianità
Quello italiano, dunque, è un mercato del lavoro impregnato di pregiudizi e stereotipi, e non solo.
Negli ultimi decenni il mercato del lavoro italiano ha vissuto modificazioni orientate alla deregolamentazione, flessibilizzazione, a cui si aggiunge la questione salariale. Mentre in Francia e Germania, dagli anni 90 ad oggi, i salari sono cresciuti del 40 e 50%, da noi sono diminuiti del 3%. I costi li paghiamo tutti perché diminuisce la coesione sociale, aumentano gli infortuni. Insomma ci troviamo a vivere in un paese peggiore e questo dipende molto dall'aumento delle disuguaglianze.