Sembra davvero paradossale il fatto che l’industria italiana della moda, nonostante occupi una posizione preminente a livello globale dal secondo dopoguerra, poi, ciclicamente, se comparata ad altri settori manifatturieri, subisca da sempre le perdite più ingenti. È stato così durante i cicli di ristrutturazioni che hanno interessato l’economia su scala globale con le crisi petrolifere negli anni settanta. Per risalire la china negli anni ottanta con la celebrazione su scala internazionale dei fasti del made in Italy.

È bene sottolineare, proprio per rispetto della realtà fattuale, che mentre a calcare le scene mondiali c’erano stilisti e top model di grido, lontano dai fasti delle passerelle, all’interno di imprese, laboratori artigiani, sottoscala e abitazioni, diverse migliaia di lavoratrici (e qualche migliaia di lavoratori) producevano silenziosamente con la maestria e la cura dei dettagli che da sempre hanno caratterizzato la confezione italiana. Storicamente, a domicilio, l’industria italiana della moda ha affidato a migliaia di donne, spesso costrette a lavorare in condizioni insalubri, a cottimo, e sovente senza contrattualizzazione, le lavorazioni più difficoltose, quelle che poi risultavano indispensabili per poter vendere a prezzi elevati i prodotti immessi nel mercato.

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Lavoro

Il lavoro fuori moda

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Il lavoro fuori moda

Tra il 1981 e il 1991 il fatturato del settore tessile e abbigliamento triplica. Il fatturato del settore calzaturiero e della pelletteria non è da meno. Non l’occupazione, tuttavia: dopo le ristrutturazioni degli anni settanta l’industria della moda ha sperimentato una riduzione progressiva del numero di occupati. I processi di automazione della produzione e la delocalizzazione di alcune fasi del processo produttivo in Paesi a minor costo del lavoro hanno infatti ulteriormente ridisegnato la configurazione dell’industria della moda. Negli anni duemila la cessazione degli "accordi multifibre", che dal 1974 hanno imposto a livello globale forti limitazioni alle esportazioni di prodotti tessili dai Paesi in via di sviluppo verso i Paesi più industrializzati, ha prodotto un'ulteriore crisi per l’industria italiana della moda. Poi è intervenuta la crisi economica e finanziaria del 2007, che ha falcidiato circa 4 mila imprese e 40 mila lavoratori. Per giungere al 2020, con le ripercussioni della pandemia prodotta dal Covid-19 che, di fatto, stanno già mettendo a dura prova le 60 mila imprese e il milione di lavoratori dell’intera filiera.

Tuttavia, sebbene la crisi economica e occupazionale prodotta dal blocco delle attività produttive a seguito della pandemia, come tutte le crisi di portata globale, rechi contraccolpi a tutti i settori economici, quello della moda è ancora una volta maggiormente esposto. Le ragioni sono molteplici: le peculiarità della produzione, già strutturalmente interessata a ritmi di lavoro discontinui in virtù della stagionalità, dagli anni settanta in poi è diventata del tutto dipendente dal fattore moda, rendendo quindi le imprese del settore incapaci di prevedere (e men che meno orientare) l’andamento del mercato; la sottocapitalizzazione di molte imprese del settore, spesso di piccole o piccolissime dimensioni (l’82% delle imprese dell’intera filiera conta meno di dieci dipendenti) – parte delle quali è vincolata da contratti di subfornitura che non permettono alcuna autonomia - con limitate risorse da dedicare a investimenti in innovazioni di prodotto e di processo.

I problemi della filiera della moda sono noti, come sono note le difficoltà prodotte dalla perdurante assenza di politiche industriali funzionali a orientare e predisporre investimenti, finalizzati a mantenere i livelli occupazionali e a impedire le numerose acquisizioni che hanno interessato molti marchi nostrani da parte di società estere. Non guasterebbe poi qualche riflessione sulle caratteristiche dell’imprenditoria che, mediamente e non da oggi, mostra una scarsa propensione a ripensare l’organizzazione del lavoro e a investire sulla formazione e la riqualificazione dei lavoratori occupati. Elementi, questi, che invece sono essenziali in un settore popolato per il 60% da donne che, stante l’asimmetrica divisione del lavoro familiare, sono costrette ad assentarsi con più frequenza dal lavoro e che quindi necessitano di servizi e politiche di bilanciamento vita-lavoro dentro e fuori il luogo di lavoro. Gli effetti prodotti dalla crisi legata alla pandemia riguardano direttamente anche l’asse famiglia-lavoro e, specificamente, quella parte di occupazione sulla quale poggia il conflitto, più che il bilanciamento vita-lavoro.

Sono proprio i numeri sull’occupazione a preoccupare, se consideriamo l’incidenza delle donne nella filiera della moda. I dati Istat pubblicati il 3 giugno scorso offrono un quadro nitido: rispetto ad aprile 2019 sono diminuiti i tassi di occupazione (-1,1%) e di disoccupazione (-3,9%), mentre cresce il tasso di inattività (+4%). Un’analisi più attenta, tuttavia, contribuisce a porre in luce che l’inattività sta crescendo a ritmi elevati più tra le donne (+4,3%) che tra gli uomini (+3,7%). A settembre sarà possibile avere un quadro più dettagliato dell’andamento occupazionale. I dati attuali ci offrono però fin d’ora qualche elemento di riflessione. La crescita dell’inattività tra le donne (le donne inattive nel mese di aprile sono oltre nove milioni, gli uomini cinque milioni 448 mila) ci ripropone alcuni nodi problematici sui quali ancora scarsa è l’attenzione da parte delle istituzioni.

Il primo punto riguarda l'assenza di servizi e politiche sociali per la riduzione del lavoro di cura. Nelle famiglie che non possono (per vincoli di bilancio) delegare a terzi parte di tale lavoro, è il partner con un salario o uno stipendio più basso che continua a ridurre o a sospendere l’attività lavorativa: succedeva e continua a succedere per molte donne - che notoriamente hanno salari o stipendi mediamente inferiori a quelli dei rispettivi partner - a seguito della maternità o dell’aumento dell’impegno nella cura di uno o più familiari. Spesso, terminato il periodo di cura, la sospensione dall’attività lavorativa si è risolta con l’ingresso nell’inattività e quindi con l’indisponibilità al lavoro retribuito. Negli ultimi decenni, mediamente la durata della permanenza delle donne tra la popolazione attiva è progressivamente cresciuta. Non basta, tuttavia, e gli effetti negativi della pandemia ripropongono i problemi di sempre: i dilemmi del bilanciamento vita-lavoro in un Paese con un welfare del tutto carente.

Passiamo al secondo aspetto. Per donne occupate in modo discontinuo o a tempo parziale (pensiamo alla crescita esponenziale del part time involontario), o appunto per donne che perdono il lavoro in alcuni settori, come quello della moda, nei quali sono richieste competenze difficilmente riutilizzabili altrove, è chiaro che il rischio di entrare nell’inattività, senza più uscirne, è elevatissimo. In assenza di interventi adeguati in termini di servizi e politiche per il bilanciamento vita-lavoro, di fronte alla comparazione tra il mantenimento in attività in presenza però di costi economici derivanti dal ricorso al mercato per il soddisfacimento di bisogni di cura, a molte donne non resta che sospendere la ricerca di lavoro e svolgere lavoro domestico e di cura per i propri familiari e parenti senza alcuna retribuzione. Questa prospettiva ci riporta a scenari precedenti agli anni settanta, che non possono non avere implicazioni nelle relazioni di genere.

Concludiamo con il terzo punto: l’uscita dalla crisi sarà lunga, ma non sarà possibile in assenza di politiche industriali mirate e accompagnate da servizi e politiche per il bilanciamento vita-lavoro. Le imprese italiane della filiera della moda producono il 95% del prodotto di alta gamma su scala globale e il 40% di tutta la produzione europea: cifre che dipendono strettamente dalla qualità delle competenze diffuse tra i lavoratori occupati. L’arresto della produzione rischia di produrre la chiusura di molte imprese e la conseguente perdita di posti di lavoro e professionalità, decretando la fine di una tradizione manifatturiera rinomata. Il rilancio dell’intera filiera passa per la valorizzazione delle competenze presenti, espresse dalle migliaia di lavoratrici che necessitano di garanzie occupazionali e reddituali e che certamente non possono essere estromesse dall’attività lavorativa retribuita. Occorre sottolineare che proprio le recenti riforme pensionistiche, attraverso il posticipo dei tempi del pensionamento, hanno prodotto seri problemi all’occupazione femminile nel settore: molte lavoratrici si sono trovate strette tra la perdita del lavoro e l’impossibilità di accedere alla pensione. Per molte di esse l’ingresso nell’inattività è stato di fatto obbligato dalle circostanze oggettive.

Tania Toffanin è sociologa economica e del lavoro, Università di Padova