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La partecipazione attiva delle donne è necessaria se davvero vogliamo cambiare paradigma e modello di sviluppo, partendo proprio dalle giuste rivendicazioni nel mondo del lavoro e per i diritti. Per questo è importante che la presenza femminile nella manifestazione del prossimo 8 ottobre, indetta dal segretario generale della Cgil Maurizio Landini sia numerosissima. Insieme le donne possono. Ne parliamo con Lara Ghiglione, neo responsabile delle Politiche di genere della Cgil
Donne e lavoro, un incontro difficile. Lo attestano tutte le ricerche più recenti, in Italia l’occupazione femminile è scesa sotto il 48% ed è concentrata nei settori del lavoro povero.
L’Italia è al 63esimo posto nella classifica delle disuguaglianze del Word Ecomic Forum tra donne e uomini. Per quanto riguarda il lavoro siamo ancora più indietro. La situazione era drammatica anche prima, ma certo – come sappiamo – la pandemia l’ha ulteriormente aggravata. Oggi registriamo una differenza tra occupazione femminile e maschile di ben 18 punti percentuali. Un divario insopportabile. Così come è insopportabile il tasso di part-time del lavoro delle donne, sia quello obbligato dai datori di lavoro che quello “scelto” dalle lavoratrici per l’assenza di servizi e di condivisione con il partner del lavoro di cura, specie quello legato alla genitorialità. Insomma, anche quello richiesto è spesso determinato e quindi viziato da condizioni di partenza diverse. Part-time che non solo rende poveri i salari, che già sono più bassi, a parità di orario, rispetto a quelli dei lavoratori di oltre il 12% secondo Eurostat. Ma limita anche la carriera e determinerà pensioni povere. Insomma, esiste un combinato disposto che crea un problema di quantità di lavoro, ma anche di qualità che si ripercuote dal punto di vista economico, dal punto di vista dei percorsi di carriera, dal punto di vista previdenziale.
Una situazione drammatica e ingiusta, anche svantaggiosa per il sistema Paese. Cosa fare?
Svantaggiosa e miope per il Paese. Basti ricordare che secondo uno Studio European Cause di Ambrosetti la riduzione del divario di genere nel lavoro farebbe aumentare il Pil di ben 14 punti percentuali. Che fare, dicevamo. Innanzitutto, alcune cose per aumentare la partecipazione delle donne sono state fatte:dalla legge Golfo che prevede un numero minimo di donne nei Cda, alla legge Gribaudo che introduce benefici contributivi e sgravi fiscali per le aziende che eliminano le discriminazioni salariali e di carriera, un punteggio premiale per l’assegnazione di appalti eccetera. Oppure, al contrario, delle penalizzazioni se non vengono rispettati determinati parametri. Anche parte degli investimenti Pnrr hanno come obiettivo l'occupazione femminile, anche se con criteri non sempre stringenti.
Quindi - diciamo - c'è consapevolezza di una situazione che deve essere migliorata e qualche tentativo va in questa direzione. Passi avanti ma non sufficienti. Intanto la questione della condizionalità nell'assunzione delle donne dovrebbe essere estesa a tutti i finanziamenti pubblici. Poi bisogna agire sulla contrattazione decentrata, soprattutto per i temi che riguardano il percorso di carriera. Anche rispetto a questo, come organizzazione sindacale, ovviamente, vogliamo poter dire la nostra e agire nei tavoli di trattativa. Poi c'è il tema, di prospettiva ma fondamentale, di un cambio di cultura. Da noi, per esempio, le donne hanno pochissimo accesso ai percorsi di studio nelle materie Stem fondamentali per il futuro. Faccio un solo esempio: nel Pnrr ci sono finanziamenti importati proprio nei settori tecnologici che hanno a che vedere con la transizione ambientale e la sostenibilità. Lì trovare donne da assumere è difficile, ecco che aumenta l’occupazione ma non quella femminile. Poi c’è il tema degli investimenti nello Stato sociale, per almeno tre ragioni diverse. Da un lato solo l’aumento dei servizi all’infanzia, agli anziani, alla persona riduce le diseguaglianze. Dall’altro perché quei servizi liberano tempo delle donne, tempo che può essere dedicato al lavoro. Infine, perché gli investimenti in welfare creano posti di lavoro nella gran parte occupati da donne. Vorrei aggiungere che le politiche di genere non sono un "problema" delle donne, ma essendo un termometro di civiltà di un Paese e avendo ripercussioni anche sull'economia complessiva, la presa in carico delle istanze delle donne deve avvenire anche da parte degli uomini. A partire dal tema della contrattazione che deve vederli impegnati a migliorare la condizione di vita e di lavoro delle donne.
Ma questo basta? O esiste ancora una sottocultura, meglio un pregiudizio, che impedisce la piena condivisione del lavoro di cura e rende arduo per le donne lavorare?
Esiste eccome. Finché la genitorialità non verrà assunta come valore sociale, parlo non a caso di genitorialità e non di maternità, questi pregiudizi saranno duri da scalfire. E non si tratta di conciliare - per le donne – lavoro di cura e lavoro in produzione, ma si tratta di condividere quello di cura. Allora il congedo di paternità deve essere obbligatorio e durare quanto quello di maternità o quasi. Dieci giorni sono meglio che niente, ma assolutamente insufficienti per scardinare i pregiudizi. Ancora, una parte dei nuovi lavori è organizzata attraverso algoritmi, che non sono neutri ma “scritti” da umani. Da tempo l’organizzazione sottolinea l’importanza della gestione di questi strumenti, attraverso i quali si può costruire lo sfruttamento moderno del lavoro. Ma se a definirli sono sempre e solo uomini c’è un rischio in più: l’organizzazione di quei lavori sarà determinata da modelli e priorità maschili. E allora la competenza scientifica e tecnologica delle donne anche in questi settori diventa determinante per disegnare l’organizzazione del lavoro su tempi e bisogni differenti.
La differenza salariale tra donne e uomini continua a essere una costante, nonostante le leggi che la vietano. In realtà, se osserviamo il mercato del lavoro ci si accorge che quelle professioni più vicine al lavoro di cura, o a predominante manodopera femminile vengono remunerate meno. Qualche esempio? Nella manifattura i metalmeccanici e le tessili hanno salari differenti. Nella scuola i primi cicli, dove si concentrano le donne, hanno stipendi più bassi. Insomma, permane nei fatti l’idea che quello delle donne sia salario aggiuntivo?
La struttura salariale nel nostro Paese ha radici antiche: fotografava la cultura che separava nettamente lavoro di cura e lavoro produttivo. Una cultura patriarcale che assegnava all’uomo il ruolo di capofamiglia a cui spettava il compito di mantenere moglie e figli. Da decenni, anche per la legge, il capofamiglia non esiste più ma la dinamica salariale stenta a rendersene conto. Ed è vero che quelle professioni che afferiscono alla cura sono pagate meno. Questo pone un problema rilevantissimo: da un lato si svalorizza il tema della cura che invece dovrebbe essere centrale, dall’altro si crea una poco appetibilità per quei ruoli e quelle professioni “poco pagate”. I lavori legati alla cura dovrebbero essere pagati più di altri perché costituiscono la base di quella equità e giustizia sociale così ben delineate dalla nostra Costituzione. Aggiungo una riflessione. Se davvero si vuole intervenire sul trend negativo della natalità occorrerebbe riflettere anche su queste questioni. A far figli sono le donne che hanno un lavoro e anche ben retribuito. Non è un caso che, come attesta una recentissima ricerca, tra quelle in difficoltà economica le percettrici del reddito di cittadinanza hanno un tasso di natalità più altro delle altre.
Nei programmi elettorali di alcune forze politiche è tornata la proposta del quoziente familiare. Va bene
Assolutamente no. Corrisponde esattamente all’idea dell'ancillarità della donna nella costruzione del reddito della famiglia. Il quoziente familiare dovrebbe servire ad accedere prioritariamente ad alcuni servizi: più è basso più alto sarà il posto in graduatoria. Ecco fatto che il lavoro delle donne e la sua retribuzione scadono di valore. L’autonomia economia di ciascuna donna è fondamentale. Lo è sempre, tanto più in una situazione di violenza domestica. Per fortuna il Parlamento ha approvato il reddito di libertà che consente alle donne vittime di violenza di poter aver un sostegno economico. Utile, ma anche in questo caso non sufficiente. Occorre rinforzare le risorse per i centri antiviolenza e i percorsi che portano alla creazione di lavoro. Solo il lavoro dà la piena autonomia. La vera libertà passa dall’autodeterminazione, anche economica ma non solo. In tutti i casi, rispetto alla violenza, rispetto al proprio corpo e alla scelta o meno di essere madri.
Infine, tutte le conquiste – da quelle degli anni 70 fino alle recentissime – sono state possibile grazie all’alleanza trasversale tra donne diverse. Da poco hai assunto la responsabilità delle politiche di genere per la Cgil nazionale. Come intendi proseguire il rapporto con le donne fuori dall’organizzazione?
Hai usato il termine giusto. Bisogna proseguire una relazione da tempo pratica con le donne dell’associazionismo e dei movimenti, pur con le peculiarità e le prerogative che ci contraddistinguono. C’è un punto che mi sta molto a cuore, non bisogna mai dare per scontato nulla. La forza delle donne ha reso possibile la conquista di molti diritti, da quelli sul lavoro fino a quelli sul proprio corpo, ma quelle conquiste non sono per sempre. Basti pensare a quello che sta succedendo sulla 194. Occorre avere forte questa consapevolezza e tornare a esercitare, tutte insieme qualunque sia il luogo nel quale siamo, quella forza collettiva che ha consentito a noi e al Paese di fare passi avanti.
Per questa ragione ritengo importante che alla grande manifestazione nazionale, prevista per l'8 ottobre a Roma e lanciata dal segretario generale Landini durante l'assemblea nazionale delle delegate e dei delegati del 14 settembre a Bologna, la presenza delle donne, delle studentesse, delle lavoratrici e delle pensionate, sia imponente. La partecipazione attiva delle donne è necessaria se davvero vogliamo cambiare paradigma e modello di sviluppo, partendo proprio da quelle giuste e necessarie rivendicazioni di cui abbiamo parlato.