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Fase due in Veneto. La pressione politica locale è fortissima, idem quella delle controparti datoriali, a partire da Confindustria. L’oggetto è sempre lo stesso: riaprire, ripartire, accelerare la ripresa delle attività produttive. Nessuna esclusa. Zaia e Fontana, come è noto dalle cronache giornalistiche, sono i “governatori” più esposti in questa battaglia, non curanti della salute e della sicurezza dei cittadini e lavoratori, tra messaggi spot e contraddittori che si succedono dall’inizio della pandemia. “Ma sono forzature inaccettabili – commenta Christian Ferrari, segretario generale della Cgil Veneto –. È il governo nazionale, sentito il parere degli scienziati, che deve decidere. Nessuna sperimentazione, nessuna forzatura: per noi il perimetro deve essere questo. Nessuno può fare da solo, non si può procedere in ordine sparso”.
Il 49 per cento degli addetti sono già al lavoro
In Veneto, secondo i dati di Unioncamere, tra “essenziali” e deroghe sono attualmente al lavoro 883.000 persone, il 49 per cento del totale, e 200.000 imprese, il 46 per cento del numero complessivo. “Un lockdown parziale ma consistente che sicuramente sta dando un contributo determinante alla strategia di contenimento del contagio che però, purtroppo, è ben lungi dall’arrestarsi” commenta Ferrari. Che ribadisce: “Non siamo per la chiusura a oltranza, ma ci troviamo ancora in piena emergenza e dunque le priorità ora sono le misure sanitarie e quella per la tutela della salute pubblica. Crediamo che siano fondamentali anche dal punto di vista economico: quando si ripartirà bisognerà arrivarci nel miglior modo possibile”.
(La casa di riposo di Merlara, colpita dal Coronavirus)
Fondamentale in questa fase il ruolo della contrattazione: “Serve un’azione negoziale a tutti i livelli – riprende il numero uno della Cgil regionale –, per rivedere spazi, organizzazione del lavoro, dotazioni di dpi e tempi sia fuori che dentro i luoghi di lavoro: il tema della mobilità pubblica, ad esempio, è fondamentale”. E tutto questo non solo per la futura fase due, ma anche per quella attuale: “Il deficit di protezioni anche per chi è al lavoro continua: se 883.000 persone vanno al lavoro, ognuno di loro dovrebbe ogni giorno avere una mascherina e un paio di guanti. Ma è evidente che questi dispositivi in queste quantità ancora non ci sono”.
Difficile per i prefetti controllare tutte le richieste di deroga
Naturalmente è molto difficile per i prefetti controllare in maniera tempestiva le comunicazioni delle aziende che dichiarano di essere in regola – rispetto ai diversi Dpcm emanati dal governo – per continuare con le produzioni. È anche molto difficile avere dati specifici. I numeri nazionali sono comunque indicativi: a oggi nelle diverse prefettura in tutta Italia sono arrivate 105.727 comunicazioni, ma sono in 38.000 casi (poco più di un terzo) sono stati istruiti i controlli che hanno portato a 2.296 provvedimenti di sospensione delle attività. Controlli tanto più difficili in una realtà come quella veneta, in cui le imprese di dimensioni medie o piccole sono polverizzate nel territorio.
Padova, piccolo non è bello
In effetti se c’è un aspetto che questa pandemia sta mettendo in luce è che tutti i parametri che hanno fatto la “fortuna” del modello Nord-Est stanno rivelando la propria fragilità: dimensione ridotta delle imprese, spezzettamento delle filiere, estrema precarizzazione del mercato del lavoro. Sono aspetti che rendono difficile contenere l’epidemia (si pensi al tema dei controlli e degli approvvigionamenti dei Dpi), ma che creeranno particolari problemi anche dopo quando la recessione colpirà duro.
“Prima dell’emergenza – racconta Aldo Marturano, segretario della camera del lavoro di Padova – il tasso di disoccupazione in provincia era basso, al 5,8 per cento; solo che l’83 per cento degli assunti lo sono come lavoratori precari. È un trend che nell’intero Veneto va avanti da 10 anni. Questo per dire che siamo i primi a essere preoccupati della situazione economica che si viene prospettando e che il modello Nord-Est va da questo punto vista completamente rivisto, a cominciare dal ‘piccolo è bello’ (a Padova la media addetti per azienda è 3.1, ndr) e dai bassi costi. Bisognerà ripartire puntando su innovazione tecnologica, scambio con le università, riconversione, sostenibilità ambientale, turismo di qualità, altrimenti con la recessione che si prospetta quelle fragilità rischiano di esplodere”. Le preoccupazioni derivano poi anche dalla composizione del Pil regionale, che per i due terzi deriva dal terziario, la cui fetta maggiore (90.000 occupati) viene dai settori più colpiti dalla pandemia: commercio, ristorazione, turismo.
Per la ripartenza puntare su un nuovo modello di sviluppo
Paradossalmente, però, è proprio questa fragilità che rende necessario oggi il contenimento. Complessivamente nel padovano dopo i vari dpcm sono al lavoro circa il 55 per cento delle imprese e una percentuale simile di lavoratori. In queste cifre sono comprese le aziende ‘essenziali’ e quelle che hanno chiesto la deroga (3.000) al prefetto, con tutti i limiti che conosciamo e cioè la difficoltà – anche per le carenze in organico – di sbrigare tutti i controlli e le verifiche necessarie. Chi lavora negli uffici racconta che è spesso il prefetto stesso a lavorare sulle pratiche. Per ora le imprese che si sono viste rifiutare la deroga sono soltanto 80. Per Marturano, in ogni caso, “le misure di contenimento hanno funzionato abbastanza, pur con qualche margine di eccessiva flessibilità ed elasticità. In alcuni casi ci siamo dovuti far sentire, con scioperi e mobilitazioni. Non è stato facile, perché qui la pressione di Confindustria è molto forte”.
Detto questo, per il sindacalista, “la ripartenza dovrà avvenire solo in piena sicurezza. Padova dopo Verona è la provincia col maggior numero di contagi. Il servizio sanitario nonostante i tagli sta reggendo, ma una eventuale ricaduta avrebbe effetti, anche psicologici, probabilmente ancora più pesanti di quelli registrati sinora”. Ed è qui – poiché nulla tornerà più come prima – che per il segretario della Cgil di Padova si apre una partita importante per il sindacato: “La contrattazione dell’organizzazione del lavoro – turni, tempi, orari – deve tornare a essere centrale e le aziende devono capire che bisogna sedersi intorno a un tavolo per discutere insieme di queste cose. Serve un confronto continuo in cui coinvolgere Rsu ed Rls e, da parte istituzionale, l’assunzione di ispettori per i controlli necessari a che le misure vengano rispettate”.
Verona, la lobby confindustriale
Anche a Verona il numero delle aziende in attività è circa il 50 per cento. “Molte nel pieno rispetto della norma – commenta Stefano Facci, segretario generale della Cgil scaligera –, altre con qualche escamotage, magari ripescando vecchi codici ateco, qualcuna ne ha addirittura dieci, e con collegamenti molto limitati alle filiere essenziali. D’altro canto sanno bene che il rischio di subire controlli è molto basso, visto che in condizioni normali le ispezioni avvengono ogni due-tre anni”. I numeri in effetti parlano chiaro: al prefetto sono arrivate circa 2.700 richieste di deroga, ne sono state esaminate 300, e solo 8 sono state le sospensioni disposte. “La sensazione – riprende Fauci – è che molto spesso non si è valutata l’effettiva quantità del lavoro svolta per le filiere essenziali”.
A Verona solo otto no alle richieste di deroga
Anche a Verona è molto forte la spinta lobbistica della Confindustria il cui presidente, Bauli, continua ad assicurare nelle sue dichiarazioni che il 99,9 per cento delle aziende sono sicure. “Ma dimentica – commenta Facci – che esiste anche tutto ‘il fuori’ delle aziende. Non c’è solo un problema di mobilità, ma anche il fatto che se tutto si rimette in moto e bisogna fornire mascherine e guanti ogni giorno a tutti i lavoratori, si rischia di sguarnire dei dpi strutture sanitarie e socio-sanitarie che su questo versante sono ancora in difficoltà”. Insomma: per il sindacalista non è vero che si può ripartire da subito in sicurezza. Anche perché i controlli di sicurezza finora fatti e di cui parla Bauli “riguardano sono 700 aziende, ma in provincia le aziende sono decine di migliaia, quasi sempre molto piccole e impossibili da controllare per i servizi ispettivi”.
Per concludere: “Anche noi siamo ovviamente preoccupati delle ricadute economiche del lockdown, sappiamo che la ripresa sarà difficile, soprattutto per i lavoratori precari, ma spingere per una riapertura totale è davvero un azzardo”.