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Questo reportage fa parte di Collettiva Academy, il progetto di collaborazione tra la redazione di Collettiva e gli studenti del corso di laurea in Media, comunicazione digitale e giornalismo dell’Università La Sapienza di Roma. Gli autori sono studenti che hanno partecipato al nostro laboratorio di giornalismo narrativo.
Il tramonto inizia a colorare il cielo di dicembre di un rossore tenue. Il fruscio delle foglie e gli schiamazzi dei bambini che giocano nel giardino spezzano i momenti di silenzio tra le parole di Haissa. “Mi trovo bene in Italia, non voglio tornare nel mio Paese, la cosa che mi piace di più qui è la libertà. Un giorno vorrei scrivere un libro sulla mia storia”. Haissa ha 23 anni, ha lasciato la Nigeria per costruirsi una nuova vita, diventando vittima di tratta. Oggi ha quattro figli e vive felicemente a Pompei. Frequenta da poco la scuola guida e vuole iniziare a lavorare per essere indipendente e dare ai suoi figli l’infanzia e la spensieratezza che lei non ha mai avuto.
Il viaggio
“Sono cresciuta nel villaggio di Ode fino a circa 15 anni, poi quando le cose sono diventate difficili ci siamo spostati in una zona di Benin City”. Abbandonata alla nascita dalla madre e orfana di padre, Haissa fu affidata alla nonna ancora in fasce. Ha frequentato la scuola primaria poi, per aiutare la nonna, ha iniziato a lavorare tra le vie della sua città, vendendo cibi preparati da lei. A 19 anni, spinta dal desiderio di costruirsi una vita migliore, accetta la proposta del cugino di intraprendere un viaggio verso l’Italia per iniziare a lavorare, con la piena consapevolezza delle difficoltà da affrontare, ma totalmente ignara della brutalità e delle violenze che avrebbe subito.
Ricorda ancora dettagliatamente gli orrori che ha vissuto insieme ad altre ragazze sul retro dell’Hilux, il pick-up con cui hanno attraversato il deserto della Libia: “Siamo state sequestrate per mesi e ho visto di tutto. Le ragazze venivano violentate, io mi nascondevo. Avevo paura, ma con l'arma puntata addosso eri costretto a fare quello che dicevano”.
Solo tre mesi dopo l’inizio del viaggio ha raggiunto Agadez in Niger, lungo la rotta verso l'Algeria quella che oggi è la capitale del traffico umano. Qui, assieme ad altre mille persone, è salita sul gommone per attraversare il mare, che di notte la terrorizzava, ma che rappresentava anche l’ultimo ostacolo da superare per iniziare una nuova vita. Grazie al salvataggio di un elicottero militare e l’arrivo di una nave, Haissa e le sue compagne hanno raggiunto Cagliari, dove la giovane ha incontrato il familiare che le aveva promesso un nuovo impiego. Ben presto, però, le parole del cugino si sono rivelate solo un inganno per attirarla in Italia e renderla oggetto di sfruttamento sessuale.
L’inganno
Haissa è una delle migliaia di persone che ogni anno lasciano il proprio Paese per iniziare una nuova vita altrove. Tra i diversi motivi per cui sempre più nigeriani emigrano vi sono la scarsa formazione e la poca possibilità di impiego. Le zone rurali sono poco considerate dalle politiche economiche e questo comporta un aumento di esclusione sociale e povertà. Secondo il rapporto annuale emanato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, nel 2022 i migranti nigeriani nel mondo sono più di 1,2 milioni, suddivisi prevalentemente tra cinque Paesi: Stati Uniti, Camerun, Regno Unito, Niger e Italia.
Secondo il Counter-Trafficking Data Collaborative - uno strumento realizzato dall’Oim (l’Organizzazione internazionale delle migrazioni) che raccoglie dati sulla tratta di esseri umani - la Nigeria risulta essere il paese africano in cui il fenomeno della tratta è più presente. L’87% delle vittime sono donne tra i 18 e i 26 anni e i motivi sono per lo più legati allo sfruttamento sessuale, seguito da quello lavorativo. L’ultimo Rapporto del Dipartimento di Stato americano, nel 2023 ha registrato 27,6 milioni di vittime di tratta, tra queste 6 su 10 sono donne e bambine.
La tratta inizia con il “reclutamento”, dietro al quale spesso ci sono grosse organizzazioni criminali: giovani donne vengono adescate da parenti o amici – o dai cosiddetti “sponsor” – che promettono di aiutarle a lasciare il Paese per ottenere un lavoro e un futuro migliore, lavorando come baby-sitter, commesse o come cameriere nel Paese di destinazione.
Le vittime vengono spesso costrette a sottoporsi a un rito che le incatena alla schiavitù sessuale, il Juju, una sorta di rito tradizionale, e vera e propria modalità di controllo psicologico praticata soprattutto in Nigeria. Inoltre, sono anche costrette a ripagare le spese che i familiari o gli amici hanno dovuto sostenere per permettere loro di giungere nel nuovo Paese. La stessa Haissa è partita con un debito di 30.000 euro verso il cugino, che, dopo l’arrivo a Cagliari, confessa di averla ingannata.
Per ripagare il debito, le donne non hanno altra scelta se non quella di prostituirsi e di seguire gli ordini della madame, la donna che gestisce il loro lavoro una volta arrivate nel nuovo Paese. “Tutto quello che guadagnavo lo prendevano per varie spese, che non erano quelle del debito. Dopo circa un anno secondo mio cugino avevo saldato solo 2.200 ma in realtà io gli avevo dato molto di più”.
L’incontro
Haissa racconta delle notti passate a dormire per strada e degli abusi fisici e verbali, di quando veniva accusata di non lavorare abbastanza. “Un giorno sono arrivate queste persone della Caritas, mi portavano l’acqua, si mettevano a chiacchierare, a volte mi davano soldi, perché se tornavo a casa senza, lui mi avrebbe picchiato”. Haissa però non si fidava ancora. Forniva false informazioni su chi fosse e su dove abitasse, impediva alle forze dell’ordine di intervenire. Solo dopo l’ennesima rassicurazione da parte dei volontari, ha deciso di scappare e di non lasciare alcuna traccia di sé, soprattutto per preservare l’incolumità di quella che poi sarà la sua prima figlia.
Haissa ha passato diversi anni all’interno di varie case-famiglia e, dopo un percorso travagliato, è giunta a Casa Rut, un centro di accoglienza di Caserta. Qui ha avuto la possibilità di continuare gli studi fino alla terza media e di guadagnare lavorando in cooperativa, ottenendo anche i documenti.
Durante la permanenza nelle prime case-famiglia la sua vita è stata stravolta da un incontro. “In chiesa ho visto questa signora che ha salutato me e la mia bambina, mi ha dato il suo numero e anche dei soldi, la casa-famiglia pensava che io li avessi rubati”. Dopo quel giorno, le strade di Haissa e di Laura (nome di fantasia ndr) si sono incrociate e divise più volte, ma alla fine si sono ritrovate. Laura ha scelto di accogliere Haissa, la sua bambina e il suo compagno in casa propria, rendendoli parte della sua famiglia. Oggi Haissa la chiama “mamma”. “Vivo nella casa che mi ha dato mamma, lei mi ha insegnato a lavare i vestiti, a cucinare, perché io non sapevo fare nulla. Sono la bambina di mamma! Spero che viva tanti anni, non troverò mai un’altra persona come lei”.
La rinascita
Haissa ama gli italiani e dice di sentirsi italiana. Non rinnega la sua cultura di appartenenza, ma non se ne sente più rappresentata. Questo l’ha portata anche ad essere allontanata da alcune amiche nigeriane. “Sono gelose. Io ragiono come un'italiana e difendo sempre gli italiani, quindi mi vedono come una persona strana, forse hanno paura di me.” Nonostante il suo difficile passato, non rimpiange le sue scelte, anzi, rifarebbe tutto da capo, perché l’incontro con la sua “mamma” le ha regalato la possibilità di riscattarsi e condurre una vita che lei definisce dignitosa.
Sogna un futuro prospero per i suoi figli, vuole che continuino a studiare e che un giorno possano realizzarsi. E augura a sé stessa di poter raggiungere tutti i suoi obiettivi, lasciandosi alle spalle un passato ancora doloroso, ma che le ha dato una quotidianità diversa, migliore. “Oggi, quando qualcuno comincia a trattarmi male, ancora ricordo quello che ho passato in quegli anni. Io prego perché nessuno faccia quella vita”.