La norma approvata dal Parlamento è chiara: la devoluzione di materie dal centro alle Regioni deve avvenire senza oneri aggiuntivi. Significa che mentre aumenteranno competenze e funzioni per Regioni ed enti locali, il numero dei dipendenti pubblici non cambierà.

Non solo: il rischio che si alleggerisca fino quasi a svuotarsi il contratto collettivo nazionale di lavoro a vantaggio della contrattazione di secondo livello è altissimo. E così insegnanti e professionisti della sanità, ad esempio, potrebbero avere stipendi assai diversi da regione a regione. Ancora: qualche territorio potrebbe decidere che per garantire sanità ai propri cittadini chiuderà le porte a chi vivendo altrove avrebbe bisogno di cure.

Secondo Serena Sorrentino, segretaria generale Fp Cgil, l’autonomia differenziata si scaricherà su lavoratori e lavoratrici dei settori pubblici, restringerà il perimetro pubblico, aumenterà le diseguaglianze e ridurrà la cittadinanza.

Perché per i lavoratori e le lavoratrici dei settori pubblici l'autonomia differenziata proprio non va bene?

Intanto c'è una rottura dell’unità organizzativa della pubblica amministrazione che avrà riflessi sui rapporti di lavoro dal punto di vista anche dell'architettura, della struttura della contrattazione collettiva. Il secondo livello di contrattazione diventa pieno di contenuti organizzativi, vista la quantità di materie che vengono delegate e demandate a livello di governo degli enti di prossimità. Questo fenomeno alla fine potrebbe portare a un contratto collettivo nazionale molto più leggero, o addirittura al superamento del ccnl, differenziando così la condizione di trattamento delle lavoratrici e dei lavoratori, riguardando il salario ma anche i diritti.

I lavoratori e le lavoratrici pubblici sono coloro che erogano i servizi alla cittadinanza. Dal punto di vista dei cittadini, cosa potrebbe cambiare?

L'impostazione della legge sull'autonomia differenziata si basa su una serie di condizioni che devono essere verificate, l'unità di garanzia dei diritti sociali e civili viene demandata alla definizione dei Lep che, a propria volta, dovranno essere sottoposti a una verifica rispetto a cosa comportano in termini di trasferimento di funzioni e risorse umane e strumentali. Stiamo parlando non solo del personale, ma anche del sistema di finanziamento dei servizi pubblici. Solo dopo aver fatto questa verifica e dopo aver fatto l'intesa in Conferenza Stato-Regioni rispetto al livello di sostenibilità, si potrà prefigurare qual è la reale garanzia dei livelli delle prestazioni su tutte le materie che vengono demandate al livello territoriale.

Ma qual è la situazione attuale?

In realtà, al momento, abbiamo un quadro di profonda incertezza sull'universalità dei diritti, che vanno dall'istruzione alla salute, dall'ambiente ai beni culturali, insomma cambia anche la qualità della cittadinanza. Per di più, visto che la norma fa riferimento alla capacità fiscale dei singoli territori, il progetto di autonomia differenziata, oltre a riguardare la secessione legislativa, presuppone anche una pesante differenziazione nell'intervento dell'amministrazione pubblica da territorio a territorio. I cittadini si vedranno consegnati, a parità di diritti, servizi diseguali.

Cosa succederà, ad esempio, nella sanità?

Per il Servizio sanitario nazionale tutto questo potrebbe significare che la gestione delle liste di attesa potrebbe essere differente da regione a regione. O potrebbe comportare che in alcuni territori determinati servizi verranno erogati dal pubblico, in altre invece gestiti dal settore privato. Ancora: potrebbe verificarsi che in alcune regioni verrà disincentivata la mobilità sanitaria, creando una ‘forte segregazione’ del percorso di cura a livello territoriale, mentre oggi, avendo un servizio sanitario nazionale pubblico e universale, il diritto alla cura viene garantito a ogni persona su base nazionale, anche in relazione a dove c'è maggiore appropriatezza e specializzazione della cura. Chiaramente sono tutti fattori che hanno anche risvolti di carattere organizzativo, come ad esempio l'organizzazione dei modelli di assistenza sanitaria sui territori.

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Se dovesse realizzarsi la fine del contratto collettivo nazionale e, ad esempio, in Lombardia venissero offerti stipendi maggiori, non si corre il rischio di assistere a una migrazione dei professionisti della sanità dalle regioni più deboli alle regioni più forti?

Sicuramente il tema delle gabbie salariali è all'ordine del giorno viste le tante iniziative di carattere legislativo, e anche i riflessi che proprio il disegno di autonomia differenziata potrebbe comportare. Purtroppo assistiamo a fenomeni che non riguardano semplicemente le differenziazioni territoriali tra Nord e Sud, ma anche l’attrattività che può determinare, ad esempio, il sistema pubblico rispetto a quello privato in termini di capacità di investimenti, di sviluppo di progetti di ricerca, di far intravedere ai professionisti dinamiche di carriera che in qualche modo possono costituire una gratificazione sia dal punto di vista economico sia da quello della crescita professionale.

Questo è un tema importante e molto serio…

Sappiamo che la carenza di professionisti sanitari dipende molto dalle norme che restringono gli spazi di accesso alle professioni sanitarie, a partire dal numero programmato per l’ingresso alle facoltà universitarie e al numero di borse di specializzazione per medici e professionisti sanitari. E sappiamo che oggi la questione del salario è importante ma non sufficiente, poiché nella scelta della professione incide molto anche la condizione di lavoro. Condizioni salariali e condizioni di lavoro si scaricano certamente su lavoratori e lavoratrici, ma hanno effetti anche sulla qualità dei servizi che vengono erogati e sull’offerta sanitaria che si è in grado di garantire a tutti. La discussione che stiamo portando al tavolo del rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro nel comparto sanità e nell'area della dirigenza è esattamente quello di maggiorare adeguando, almeno al costo dell'inflazione, le retribuzioni dei dipendenti pubblici, a fronte del fatto che il governo riconosce appena un terzo dell'inflazione cumulata.

In conclusione, dal punto di vista della democrazia, cosa ti preoccupa di più di questa legge?

Innanzitutto, non c'è alcuna riflessione e nessuno strumento all'interno della norma che possa far fronte allo tsunami amministrativo che determinerà la devoluzione di tutte queste competenze a enti di prossimità che già oggi sono allo stremo. Basti pensare alla stessa mancata riforma delle Province per capire cosa succederà, a invarianza di risorse, con il trasferimento di deleghe, funzioni e competenze a livelli di prossimità che dovrebbero garantire la stessa identica qualità amministrativa. Significa, di fatto, programmare il fallimento delle istituzioni, perché lo stesso numero di personale dovrà svolgere più funzioni e garantire più servizi, significa programmare un arretramento della presenza istituzionale e dell'efficacia amministrativa sul territorio. Significherà incidere sulla qualità della democrazia, perché ridurrà la capacità delle istituzioni di garantire il buon governo e il buon funzionamento della vita pubblica e della vita sociale delle persone. È, quindi, una questione non banale: il funzionamento e la valorizzazione istituzionale attiene anche proprio alla qualità della democrazia partecipata, quindi anche alla possibilità di cittadini e cittadine di partecipare a un processo che, nel caso della legge di autonomia differenziata, non è di maggiore decentramento, ma di restrizione del perimetro pubblico e di arretramento delle istituzioni democratiche. Tutto ciò è sicuramente molto preoccupante. Siamo quindi, sia come categoria sia come Confederazione, attivamente impegnati per evitare che questa legge entri in vigore e dispieghi i suoi effetti pericolosi.

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