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Sgombriamo subito il campo da possibili equivoci: la storia del Covid-19, malattia “democratica” che colpisce tutti senza distinzioni di status sociale è una balla. Il virus non è affatto democratico, non colpisce tutti allo stesso modo, ma molto di più le persone socialmente fragili, con bassi titoli di studio, che vivono in alloggi piccoli o sovraffollati o che svolgono lavori più “esposti” e meno tutelati. Lo certifica l'ultimo rapporto Istat nel quale si legge che “l’epidemia ha colpito violentemente le persone con maggiori fragilità, acuendo al contempo le significative disuguaglianze che affliggono il nostro Paese”.
Quindi l'effetto del virus è stato doppio: non solo ha fatto morire di più le persone più fragili e meno istruite (i dati riferiti al mese di marzo parlano chiaro, soprattutto per le donne), ma ha innescato un ulteriore ampliamento delle disuguaglianze, un “effetto moltiplicatore”, come lo definisce Giordana Pallone, responsabile delle politiche di contrasto alla povertà per la Cgil nazionale. “Sappiamo che esiste una correlazione tra determinanti e conseguenze – spiega la sindacalista - che si alimentano a vicenda in una sorta di lineare circolo vizioso, da cui è difficile uscire, se non spezzando i meccanismi di riproduzione delle disuguaglianze”.
Ma quali sono questi meccanismi da spezzare? Un esempio classico e assolutamente calzante è proprio l'accesso all'istruzione, in particolare ai servizi per l'infanzia. “L’Istat – osserva ancora Pallone - rileva che la percentuale di famiglie con bambini che frequentano il nido è del 13% nel quintile più povero, mentre raggiunge il 31,2% in quello più ricco. Le implicazioni da un punto di vista delle disuguaglianze presenti e future sono evidenti”.
L'istruzione non è però l'unico brodo di coltura delle disparità. Un altro nodo fondamentale è quello dei servizi sanitari, così differenti da territorio a territorio. “Pensiamo solo a come hanno risposto diversamente quelli di due regioni confinanti, politicamente omogenee e duramente colpite dal virus come Veneto e Lombardia – continua Pallone – La prima ha retto meglio anche grazie a una rete di servizi territoriali, la seconda è andata in tilt con il suo sistema ospedalocentrico e fortemente privatizzato, creando nuove disuguaglianze”.
Anche secondo Ivan Lembo, responsabile delle politiche sociali della Camera del Lavoro metropolitana di Milano “il modello sanitario lombardo, da tempo, ha caratteristiche che determinano un aumento delle diseguaglianze di salute, colpendo le persone più povere”. “Da un lato – ha osservato il sindacalista intervenendo al webinar su povertà e disuguaglianze di salute promosso dalla Cgil - c'è un privato che raccoglie il 40% della spesa sanitaria pubblica e che può (in assenza di vincoli imposti) scegliere in quali settori investire, ignorando settori determinanti come i pronti soccorso, i dipartimenti di emergenza, per non parlare della prevenzione. E c'è un pubblico – ha aggiunto Lembo - che è gestito secondo la medesima logica 'aziendale' della sanità privata: tagli di posti letto, indebolimento della medicina territoriale (servizi di prevenzione, poliambulatori, consultori, medici di famiglia), enorme divario dei tempi di attesa per poter svolgere una visita tra chi può permettersi prestazioni a pagamento (attraverso l’intramoenia) e chi no”.
Ecco allora uno dei grandi insegnamenti che si spera l'epidemia Coronavirus abbia impartito a tutti, non solo in Lombardia: la lotta alle disuguaglianze e alla povertà non si fa solo con le necessarie misure di sostegno al reddito, ma si fa soprattutto con “l’edificazione di un sistema di protezione sociale, centrato sul territorio, capace di prendere in carico la popolazione nella multidimensionalità dei suoi bisogni”. In quest'ottica, è ancora la Cgil a sollecitare “una forte integrazione tra politiche sociali e sanitarie con l’azione sinergica di tutti i livelli istituzionali coinvolti e nel rispetto di norme cornice nazionali - a partire dai Livelli Essenziali delle Prestazioni sociali da definire al più presto - capaci di intervenire nel territorio inteso come sistema di relazioni in cui le malattie agiscono”.
Tradurre in concreto questo concetto può sembrare difficile. In realtà esistono esempi di pratiche già in essere che vanno in questa direzione e che andrebbero però sistematizzate e rese strategia comune. È il caso del progetto Habitat-Microaree di Trieste, che ha portato negli anni alla costruzione di politiche di forte integrazione tra i servizi sanitari di competenza dell’Asl e i servizi sociali forniti dal Comune, in particolare in piccole aree (tra i 500 e i 2000 abitanti) a forte presenza di edilizia popolare, dove incidono in maniera significativa alcuni “determinanti sociali di salute” (ovvero condizioni sociali che impattano sulla salute delle persone). Il progetto triestino punta non solo a garantire interventi a livello individuale (supportando le persone, in particolare quelle più vulnerabili, nell’accesso alle prestazioni sanitarie, sociosanitarie e sociali), ma agisce a livello comunitario, promuovendo coesione sociale e solidarietà reciproca.
“Il sistema delle microaree di Trieste ha funzionato bene anche durante l'emergenza Covid – come ha raccontato il suo ideatore Franco Rotelli nel webinar Cgil - perché l'istituzione pubblica aveva ben chiaro quali fossero i cittadini più esposti, consentendo un intervento preventivo e veloce – osserva ancora Giordana Pallone – mentre al contrario abbiamo visto come interventi di emergenza, quali i buoni alimentari dati di corsa dai Comuni per tamponare situazioni di grave povertà emerse con la pandemia, hanno fatto riscontrare grandi problemi in molte realtà, evidenziando l'oggettiva difficoltà di tante amministrazioni pubbliche ad arrivare a tutti coloro che avevano realmente bisogno. Perché quello che è mancato è una rete territoriale, un'infrastruttura sociale in grado di intercettare e conoscere i bisogni”.
Una definizione che rende molto bene l'idea è quella della “città che cura”, coniata proprio da Franco Rotelli, uno dei principali protagonisti della riforma psichiatrica in Italia. “Nella guerra attuale tra inclusione ed esclusione, che si gioca in ogni angolo della penisola – afferma Rotelli - si scopre paradossalmente la ricchezza e la varietà dei territori, giacimenti di risorse che rischiano di non emergere o di andare sprecati. In questo senso, nell’affrontare bisogni di salute sempre più complessi, la crisi che stiamo attraversando può diventare un’opportunità: da un lato espone i sistemi di cura a forme involutive di ritiro e di arretramento, dall’altro fa comprendere l’importanza di aprire e contaminare i luoghi e gli spazi istituzionali, spingendo i professionisti e i cittadini a cercarsi e incontrarsi per inventare un sociale più ricco”.
Ma per fare questo servono ovviamente anche risorse economiche, come osserva Rossana Dettori, segretaria confederale della Cgil nazionale. “Noi chiediamo che sanità, sociale ed istruzione, i tre pilastri fondamentali su cui poggiano i diritti di cittadinanza che possono abbattere le disuguaglianze, abbiano una governance pubblica e una regia nazionale forte e siano finanziati in maniera strutturale e progressiva, non lasciati in balia delle varie leggi finanziarie”. Da questo punto di vista, secondo la Cgil, la scelta di non accedere al Mes sarebbe un errore, perché il sistema sanitario ha bisogno di quelle risorse dopo anni di continui tagli. “In ogni caso – conclude Dettori - in questa fase più che mai bisogna scongiurare quella guerra tra fragili, tra ultimi e penultimi, che rischia di amplificarsi in situazioni di crisi come quella attuale. Da questo punto di vista il Governo ha un compito molto importante: utilizzare bene le ingenti risorse che arrivano, discutendo con i soggetti sociali le politiche da mettere in campo, per fare uscire questo Paese da una crisi divenuta ormai insopportabile”.