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La conta delle vittime del terremoto che squassò la Sicilia tra il 14 e il 15 gennaio 1968 varia: secondo alcune fonti furono complessivamente 231 e i feriti oltre 600, pochi rispetto ai danni perché molti abitanti avevano trascorso la notte all'aperto; secondo altre le vittime furono 296. Altri scrivono addirittura di 370 morti, circa 1.000 feriti e 70.000 sfollati circa.
È “un clima da anno Mille”, nella definizione di Leonardo Sciascia, che a caldo scriveva
Dodici ore dopo la sciagura, a Santa Margherita Belice, non era arrivata né una tenda, né una pagnotta, né una coperta per quelli lì, a Santa Margherita, a Montevago, a Gibellina, a Salemi; quelli che vivono nelle case di gesso e ci muoiono; quelli cui restano soltanto gli occhi per piangere la diaspora dei figli, pulviscolo umano disperso nel vento dell’emigrazione; quelli che ancora faticano con l’aratro a chiodo e con muli; quelli che non hanno né scuole, né ospedali, né ospizi, né strade. La Sicilia è stanca, muore ogni giorno, anche senza l’aiuto delle calamità naturali.
Una regione in estrema difficoltà
Il terremoto del 1968 mette drammaticamente a nudo lo stato di arretratezza di una regione povera e lontana dai fasti del boom economico in primo luogo nella stessa fatiscenza costruttiva delle abitazioni in tufo crollate senza scampo sotto i colpi del sisma.
Un mese dopo, nella provincia di Trapani, 9.000 senza tetto erano ricoverati in edifici pubblici, 6.000 in tendopoli, 3.200 in tende sparse e 5.000 in carri ferroviari, mentre 10.000 persone erano emigrate in altre province. Gli abitanti vissero per mesi nelle tendopoli e poi per anni nelle baraccopoli. Nel 1973 i baraccati erano 48.182, nel 1976 erano ancora 47.000. Le ultime 250 baracche con i tetti in eternit saranno smontate solo nel 2006.
La voce di Danilo Dolci
“La burocrazia uccide più del terremoto”, tristemente constatava Danilo Dolci, che attraverso la sua Radio dei Poveri Cristi (ideata e realizzata insieme a Franco Alasia e Pino Lombardo), non smetterà negli anni di denunciare a tutto il mondo la situazione drammatica in cui erano costretti a vivere gli abitanti del Belice (“A vegliare a Partinico stanotte - ne scriverà Italo Calvino - è la coscienza dell’Italia, una coscienza che è per così dire poca parte rappresentata dalla classe dirigente, e che è amaro privilegio dei poveri”). L’emittente può essere udita su tutto il territorio italiano e da molte località all’estero. A quanto annunciato, può essere captata anche negli Stati Uniti.
Qui parlano i poveri cristi della Sicilia occidentale, attraverso la radio della nuova resistenza - scandirà la voce dei conduttori - Siciliani, italiani, uomini di tutto il mondo, ascoltate: si sta compiendo un delitto, di enorme gravità, assurdo: si lascia spegnere un’intera popolazione. La popolazione delle Valli del Belice, dello Jato e del Carboi, la popolazione della Sicilia occidentale non vuole morire. Siciliani italiani, uomini di tutto il mondo, avvisate immediatamente i vostri amici, i vostri vicini: ascoltate la voce del povero cristo che non vuole morire, ascoltate la voce della gente che soffre assurdamente. Siciliani italiani, uomini di tutto il mondo, non possiamo lasciar compiere questo delitto: le baracche non reggono, non si può vivere nelle baracche, non si vive di sole baracche. Lo Stato italiano ha sprecato miliardi in ricoveri affastellati fuori tempo, confusamente: ma a quest’ora tutta la zona poteva essere già ricostruita, con case vere, strade, scuole, ospedali.
Le mani capaci ci sono, ci sono gli uomini con la volontà di lavorare, ci sono le menti aperte a trasformare i lager della zona terremotata in una nuova città, viva nella campagna con i servizi necessari, per garantire una nuova vita. Gli uomini di tutto il mondo protestino con noi: L’Italia, il settimo paese industriale del mondo, non è capace di garantire un tetto solido e una possibilità di vita ad una parte del proprio popolo. Uomini di governo: lasciate spegnere bambini, donne, vecchi, una popolazione intera. Non sentite la vergogna a non garantire subito case, lavoro, scuole, nuove strutture sociali ed economiche a una popolazione che soffre assurdamente?
Se si vuole, in pochi mesi una nuova città può esistere, civile, viva. Chi lavora negli uffici: di burocrazia si può morire. I poveri cristi vanno a lavorare ogni giorno alle quattro del mattino. Occorrono dighe, rimboschimenti, case, scuole, industrie, strade, occorrono subito. Questa è la radio della nuova resistenza: abbiamo il diritto di parlare e di farci sentire, abbiamo il dovere di farci sentire, dobbiamo essere ascoltati. La voce di chi è più sofferente, la voce di chi è in pericolo, di chi sta per naufragare, deve essere intesa e raccolta attivamente, subito, da tutti.
La lunga scia del sisma e le devastazioni che verranno
“La sequenza sismica che seguì a quella notte del 14 gennaio 1968 - ricordava in occasione del 50° anniversario il presidente della Repubblica Sergio Mattarella - si protrasse per un intero anno: se possibile, una sofferenza aggiuntiva a quelle delle morti e delle distruzioni. Chiunque sia stato pesantemente colpito da un terremoto può testimoniare come le scosse e la catastrofe che provocano - accanto ai lutti e ai danni materiali - lascino tracce irreversibili negli animi. La memoria di ciò che è accaduto non si separa più dal vissuto di ciascuno. Non è stato diverso nella Valle del Belice che qui, oggi, ricorda le sue tante vittime, l’accidentato percorso della ricostruzione, la fatica accompagnata al tormento delle scelte di vita personale e di quelle complessive delle popolazioni colpite”.
E in una storia che sembra tristemente infinita verranno ancora le devastazioni del Friuli, dell’Irpinia, del Molise, dell’Umbria, delle Marche, de L’Aquila, dell’Emilia Romagna. Ancora morte, crolli, distruzioni e ricostruzioni difficili.
Nel novembre del 1980 l’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini diceva:
Non deve ripetersi quello che è avvenuto nel Belice. Io ricordo che sono andato in visita in Sicilia. Ed a Palermo venne il parroco di Santa Ninfa con i suoi concittadini a lamentare questo: che a distanza di 13 anni nel Belice non sono state ancora costruite le case promesse. I terremotati vivono ancora in baracche: eppure allora fu stanziato il denaro necessario. Le somme necessarie furono stanziate. Mi chiedo: dove è andato a finire questo denaro? Chi è che ha speculato su questa disgrazia del Belice? E se vi è qualcuno che ha speculato, io chiedo: costui è in carcere, come dovrebbe essere in carcere? Perché l’infamia maggiore, per me, è quella di speculare sulle disgrazie altrui. Quindi, non si ripeta, per carità, quanto è avvenuto nel Belice, perché sarebbe un affronto non solo alle vittime di questo disastro sismico, ma sarebbe un’offesa che toccherebbe la coscienza di tutti gli italiani, della nazione intera e della mia prima di tutto.
Quanta triste attualità in queste parole…