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Perché Simone Biles che sta dominando le gare di ginnastica è “la regina che ha imparato a perdonarsi” mentre Thomas Ceccon – vincitore con la maglia tricolore dei 100 dorso – è “solo” un fenomeno del nuoto? Perché le componenti della squadra italiana di spada, oro anche loro, vengono presentate con “la mamma, la psicologa, la francese e l’amica di”?
Perché per raccontare la vittoria italiana nel beach volley femminile non è bastato dire che è stato battuto l’Egitto ma si è dovuto parlare di “atlete in calzamaglia e gambe velate”? Perché, se degli atleti vengono solitamente descritte le biografie sportive, delle atlete ma anche delle politiche, delle imprenditrici, delle donne celebri, si osservano innanzitutto il corpo – troppo grassa/troppo magra – poi lo stato civile – fidanzata, coniugata, madre o non – infine la condizione psicoemotiva.
Il perché è chiaro, purtroppo e fin troppo: perché viviamo in una società ancora fortemente sessista e condizionata da stereotipi e pregiudizi che fanno male alle donne e alla costruzione di una società più paritaria e quindi più giusta.
Sotto questo punto di vista le Olimpiadi sono un terreno di osservazione e analisi interessante non solo perché nell’arco breve di pochi giorni si disputano le medesime competizioni al maschile e al femminile, e quindi il confronto su come sui media si parla delle donne e come degli uomini è facile e presto fatto, ma anche perché lo sport agonistico più celebrato è quello maschile per definizione e quindi commentatori, giornalisti e addetti ai lavori, sono più facilmente abituati a parlare di atleti e sportivi piuttosto che di atlete e sportive.
Manca, si direbbe, la percezione di cosa sia sessista. Il calcio ricchissimo e strapagato è maschile, il basket, la formula uno, il tennis sono sui media e nell’immaginario collettivo innanzitutto maschili. Le squadre femminili sono secondarie, meno visibili, meno importanti, vengono pagate meno; i premi dei tornei, non si comprende per quale regola, valgono abitualmente meno della metà dei premi maschili per non parlare dei ricchi ingaggi pubblicitari e delle sponsorizzazioni.
Nel 2019 fece scalpore la protesta per la parità salariale delle calciatrici statunitensi vincitrici, a differenza del team maschile, del mondiale di calcio; sempre negli Usa, lo scorso anno, è toccato a Ellison Felix, ultracampionessa atletica, vedersi ridotto dalla Nike il contratto pubblicitario del 70% perché diventata madre. In entrambe i casi la determinazione e il “momento storico”, hanno portato al riconoscimento della parità nel primo caso e al pieno rinnovo del contratto nel secondo. Due vittorie che grazie all’eco mediatica hanno avuto un effetto a cascata per i diritti di tutte le sportive e di tutte le donne.
Nella società contemporanea i media, chi assume decisioni e chi vi opera, godono di un enorme potere di condizionamento della società e di trasformazione culturale. Per questo le battute sessiste come gli stereotipi e i luoghi comuni vanno contrastati sia nelle scuole di formazione professionale ma anche con gesti simbolici come, nei giorni scorsi, il siluramento del commentatore sportivo Bob Ballard che aveva detto delle nuotatrici australiane, "Stanno terminando. Sapete come sono le donne, se ne stanno in giro a truccarsi”.
Le parole, il linguaggio, le immagini costruiscono mondi, pensieri e condizionano, rinforzando o destrutturando, la cultura antica che descrive le donne, anche straordinarie, sempre in relazione alla propria condizione di fidanzate, mogli, madri, amiche, belle, tristi o nervose. Come ricorda una celebre risposta di Marie Curie a un giornalista che le chiedeva “come si vive accanto a un genio?”. “Non lo so, chieda a mio marito”.
Esmeralda Rizzi, Ufficio politiche di genere Cgil