Questo reportage fa parte di Collettiva Academy, il progetto di collaborazione tra la redazione di Collettiva e gli studenti del corso di laurea in Media, comunicazione digitale e giornalismo dell’Università La Sapienza di Roma. Gli autori sono studenti che hanno partecipato al nostro laboratorio di giornalismo narrativo.


Nel bar c’è silenzio. Hasun accarezza Margherita, la gatta che sorveglia il luogo. Ibrahim sta per arrivare, sicuramente con un sigaro pronto tra le dita. Sono passati trentacinque anni da quando i due fratelli hanno messo piede a Roma. Quindici da quando hanno deciso di acquistare il Bar dello Sport, nel quartiere del Pigneto. Crescono nel deserto dell’ovest siriano, tra Palmira e Homs, e lavorano con la famiglia nel commercio. Ma la Siria non è mai stata un luogo facile. Il regime di Assad è aggressivo con tutti, specialmente contro i ribelli antigovernativi che, oltre alle continue repressioni, vengono privati di qualsiasi opportunità lavorativa. “O sei con loro, o sei contro di loro. In mezzo non c’è nessuno”, spiegano.

Cosa c’era lì, cosa c’è qui

Così, prima Hasun, poi Ibrahim, devono lasciare la loro terra in fiamme. I due fratelli nascono sotto il regime siriano di Hafiz al-Assad, padre dell’attuale dittatore siriano. Per chi, come il padre dei fratelli Omier, decide di non sottostare a un monarca intransigente, sono previste pene atroci, come essere incatenati e trascinati in giro per la città. “Negli anni Ottanta, durante la prima rivolta, non c’era la televisione, non esisteva internet. Nessuno ha fatto vedere niente. Quello che hanno fatto... nessuno può immaginarlo. Parlano di terrorismo, ma sono loro i terroristi”, spiega Hasun. Ibrahim aggiunge: “Oggi tutto il mondo vede in diretta i massacri e la gente morire”.

Eppure, nonostante la possibilità contemporanea di ricezione immediata delle notizie da e in tutto il pianeta, secondo un rapporto redatto da Save the Children del 17 marzo 2023 la Siria rientrerebbe tra i “conflitti dimenticati”. Ciò avviene specialmente a seguito dello scoppio della guerra in Ucraina alla quale viene concesso più spazio all’interno dei media, e quindi “una copertura mediatica cinque volte superiore quella di tutti e dieci i Paesi colpiti da conflitti peggiori per l'infanzia messi insieme”.

Nel 2000 Hafiz al-Assad muore lasciando il potere al figlio Al Bashar. La sua gestione statale e internazionale accende una serie di micce fino alla completa esplosione nel 2011, anno in cui la primavera araba bussa alla porta siriana. Il conflitto armato perdura da quel momento attraverso disparate atrocità nei confronti dei civili. Secondo Hasun, la Siria di adesso è ancora più insidiosa.

Le violazioni dei diritti umani e i crimini di guerra perpetrati dal regime di Assad durano ormai da tredici anni. Uno dei luoghi più infimi del regime è la prigione di Saydnaya, nella città di Homs. All’interno oltre 130.000 persone dal 2011 in poi hanno trovato una morte violenta dopo aver subito abusi e umiliazioni fisiche e psicologiche. Numerose sono le interviste dei sopravvissuti alla prigionia, i quali raccontano bastonature, scariche elettriche, stupri, estirpazione di unghie, ustioni di qualsiasi genere e altre esecuzioni ai danni dei detenuti.

Anche i parenti e gli amici dei due fratelli sono stati o sono ancora vittime del governo. Gli occhi di Ibrahim si fanno sempre più lucidi mentre seleziona le memorie nella mente. Fa un tiro di sigaro, espira, ricorda: “Abbiamo cugine e cugini in carcere che non sappiamo se siano vivi o morti. Amici, fratelli, vicini di casa, abbiamo tanti dispersi che non sappiamo che fine abbiano fatto. La Siria di oggi è così”.

Diritti violati

La Siria di oggi è così. Un luogo e una guerra dimenticati dall’Occidente, ma eternamente vivi nel cuore di chi è costretto a partire. Come vivo è il ricordo di coloro che la Siria ha tenuto con sé per sempre. “Avevo un altro fratello che non c’è più. È morto sotto le torture del regime, il 12 maggio 2011. La prima volta lo hanno tenuto per quarantacinque giorni. Lo hanno massacrato, è uscito da lì con le stampelle. La seconda volta lo hanno trattenuto per quattro giorni e quando è uscito non riusciva più a camminare. È rimasto in vita per tre giorni, poi se n’è andato”, racconta Hasun, con sguardo cupo.

Ibrahim, invece, decide di non riportare alla luce la morte del fratello ma di tenerlo in vita sfiorando, attraverso il ricordo, la storia di chi, con le mani e con il coraggio, ha sostenuto la propria comunità fino all’ultimo giorno di vita. “Mio fratello non portava armi addosso quando è cominciata la rivolta in Siria, che era pacifista, era degli studenti siriani. Loro (il regime, ndr) hanno obbligato i giovani a portare le armi, a lasciare le scuole e le università. Mio fratello invece portava aiuti umanitari per i quartieri assediati nella nostra città. Degli 11 quartieri di Homs, 9 erano assediati da parte del regime. Mio fratello aiutava la gente, portava loro il pane, le medicine, il grano. Mangiavano di tutto, sono rimasti assediati oltre 620 giorni. “Ogni casa in Siria conta almeno un morto per colpa di questa guerra”. La casa Omier conta ventidue giovani massacrati e uccisi

Tutta la Siria è casa mia

In Siria Hasun studia economia e lavora, per quanto possibile, in un negozio con la famiglia. Le repressioni violente del regime lo portano in Italia, tra l’amarezza di una terra abbandonata e la speranza di una vita migliore. “Io mi sono laureato, ma il governo non mi faceva lavorare perché non avevo la tessera del partito”, dice quasi sorridendo. Riesce così a prendere un visto attraverso l’ambasciata siriana e arriva a Roma in aereo. Guarda la città con occhi da turista curioso per due giorni per poi iniziare subito a lavorare in un bar nei pressi di Piazza del Popolo. Impara il mestiere e, con gli anni di esperienza accumulata e l’ottenimento della cittadinanza italiana, ne diventa il responsabile. Due anni più tardi lo raggiunge Ibrahim, che segue un iter simile. Insieme, con cura e dedizione, prendono in mano il Bar dello Sport, un luogo di scambi generazionali multi e interculturali, ma soprattutto di incontro tra la tradizione italiana e le radici siriane.

“Due settimane fa mi hanno consegnato una targa per il bar, perché è un locale storico, è nato nel 1937. Avete fatto una foto?”, ci chiede Hasun, soddisfatto della conquista. “Gli italiani sono contenti di venire qua e di mangiare i nostri piatti”.

Mia madre, la Siria, l'Italia
Mia madre, la Siria, l'Italia

Il giardino esterno, caratterizzato da una semplicità casalinga e colorata, raccoglie dettagli che richiamano la cultura siriana, come la piccola fontana al centro. “Italiani e siriani sono simili, sono persone semplici. Sono stato in Germania ma non sentivo di rimanere là. Poi sono sempre stato tifoso, la mia squadra preferita è il Milan”, racconta scherzando. Entrambi ripetono che il popolo siriano è serio, vuole solo lavorare. Le tre stelle rosse sulla bandiera affrescata sul muro sono il simbolo della rivoluzione che scorre nelle loro vene. “Io ho tre madri: mia madre, la Siria e l’Italia”.

Tuttavia, una casa acquisita, per quanto possa vantare il sapore di una nuova libertà, non può sempre sostituire l’amore per la propria terra d’origine. “Ci penso ogni minuto, ogni secondo. Parliamo sempre della Siria”, dice Ibrahim. La nostalgia tace dietro i loro sguardi, il futuro della propria terra gela il sangue ancor più del ricordo delle torture vissute da amici, da fratelli e sorelle, che compongono quel mosaico di ricordi indelebili sulla loro pelle. Hasun sorride girovagando per il suo bar con malinconica fierezza. Ibrahim piange e resiste, tutta la Siria è la sua città. “Tutta la Siria è casa mia”, sussurra.