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Susanna Camusso, responsabile delle politiche di genere della Cgil, analizza e dà una lettura dei dati contenuti nel Il 6° rapporto “Le equilibriste: la maternità in Italia 2021” redatto da Save the Children.
Partiamo dai numeri: a perdere il lavoro in Italia durante la pandemia sono state soprattutto le donne. Di queste, l'80 per cento ha un figlio. Il binomio maternità-lavoro è ancora inconciliabile?
Questi dati dimostrano una cosa che sosteniamo da tempo: non c’è solo un problema di occupazione femminile, ma anche di permanenza al lavoro delle donne, che non deriva dalle caratteristiche e dalle competenze delle lavoratrici bensì da una struttura ostile che è fatta di mancanza di servizi e svalorizzazione del loro lavoro. In una situazione di particolare difficoltà e disagio come quella che stiamo vivendo, queste contraddizioni esplodono violentemente. Basta leggere i dati del rapporto di Save the Children per scoprire, per esempio, che la maggior parte di coloro che hanno perso il lavoro nell’ultimo anno aveva un contratto part-time.
Quindi è il modo in cui è "costruito” il nostro mercato del lavoro ad essere sfavorevole per le donne?
Non c’è dubbio. Innanzitutto occorre ricordare che stiamo parlando di posti di lavoro persi mentre era in vigore il blocco dei licenziamenti e in una stagione nella quale gli ammortizzatori sociali sono stati ampiamente messi a disposizione e utilizzati. È proprio questo a evidenziarci che le donne popolano il mondo del lavoro irregolare, para-sommerso e sommerso. O hanno forme contrattuali precarie, lavori a termine, part-time involontari e in appalto. Tra le nostre maggiori preoccupazioni c'è il modo in cui si sta discutendo del problema: questa situazione rispecchia il pre-pandemia. Quando si arriverà (perché si arriverà) a tirare le fila della situazione nei settori della cultura, del turismo, della ristorazione, tutti comparti ad alta segregazione femminile, cosa succederà?
Insomma, per ragionare di occupazione femminile occorrerebbe ragionare prioritariamente di mercato del lavoro. È così?
Sì, è così. Una delle cose che credo vada detta con nettezza è che nonostante il Piano nazionale di ripresa e resilienza assuma la trasversalità delle politiche di genere, non solo non si dà un obiettivo in termini di risultato occupazionale, ma non si prevedono in nessun modo riforme abilitanti legate al mercato del lavoro. Per questo bisogna tenere insieme occupazione e permanenza nel mercato del lavoro: quello che incide sono le forme contrattuali di ingresso, che quasi mai sono stabili e che non lo diventano neppure con il passare del tempo. Le donne, anche quando ottengono contratti più regolari, a causa della mancanza di strutture e servizi per la conciliazione, finiscono per dimettersi volontariamente. Questa situazione però non è nuova, esisteva anche prima del Covid, solo che la pandemia ce l'ha sbattuta in faccia con veemenza. In realtà c'è una grande disattenzione al fatto che è l’attuale struttura del lavoro e della società che determina la discriminazione. E contemporaneamente c’è la tentazione di dire: sono le donne a dover fare qualcosa, poi tutto si risolverà. No, anche fossero tutte laureate in matematica, questi ostacoli rimarrebbero.
Un altro ostacolo alla permanenza delle donne al lavoro è il differenziale di retribuzione. Che cosa ne pensa?
Non è un caso che continuiamo a insistere su due elementi. Il primo è l’obbligatorietà del congedo di paternità (e non per 10 giorni): c’è bisogno di uno shock culturale ma anche di strumenti per realizzarlo, e imporlo per legge lo renderebbe non discriminante. La seconda questione è quella della remunerazione: i congedi non possono essere pagati così poco, altrimenti diventa inevitabile che a usufruirne sia il genitore con lo stipendio più basso. Ovviamente è indispensabile ridurre il differenziale salariale tra donne e uomini. C’è uno studio internazionale che dimostra che esiste una diretta correlazione tra il pagamento pieno dei congedi e il loro utilizzo da parte degli uomini. Poi, però, c'è un tema generale che riguarda la permanenza delle donne nel mondo del lavoro. Fino a quando l'essere occupate metterà sulle nostre spalle il problema della fatica della conciliazione e sottolineerà lo scarso valore del nostro lavoro, ci sarà anche un non investimento femminile sulla permanenza nel mercato. Allo stesso modo, il fatto che la maternità diventi un incubo e ponga questioni di conciliazione tutte individuali, in assenza di una società che si faccia carico almeno in parte del lavoro di cura, è un elemento che dissuade le donne dal fare figli e dal lavorare. Un problema che viene vissuto come individuale ma che è soprattutto collettivo. Poiché siamo un Paese con un tasso di natalità negativo, bisognerebbe porsi questo problema sul serio.
Sud, donne e giovani sono gli obiettivi trasversali del Pnrr: strumenti e investimenti messi in campo vanno nella giusta direzione secondo lei? Sono sufficienti?
Per le donne il Pnrr non fa quasi nulla. Le risorse destinate ai servizi, a partire da quelli per l’infanzia, sono indirizzate alle infrastrutture ma non alla gestione. Inoltre, pongono obiettivi davvero troppo bassi rispetto ai bisogni. Basti pensare che per gli asili nido il Piano nazionale di ripresa e resilienza conta di raggiungere in sei anni l’obiettivo che dovevamo centrare nel 2010. E poi, non c’è nessun intervento specifico che provi a qualificare il mercato del lavoro rendendolo più accogliente per le donne, non c’è nessun vincolo di occupazione femminile prefissato e non si stabilisce nemmeno una condizionalità reale nel predisporre gli investimenti. Credo che tutto questo sia causato dall’assenza di una analisi sulle ragioni della scarsa partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Faccio un altro esempio. Vi è un capitolo della Missione 4 che prevede investimenti per favorire la partecipazione delle ragazze alle materie Stem, alle discipline scientifico-tecnologiche, e quindi per contrastare tutti gli stereotipi che la impediscono. Peccato che non ci si sia domandati perché esistono stereotipi che rendendo difficile l’ingresso nelle materie Stem, quali siano questi stereotipi, se gli impedimenti derivino da una somma di stereotipi. Insomma, anche se ci si pone l’obiettivo generale di contrastare le discriminazioni e valorizzare le diversità (cosa che potrebbe avere effetti anche sulla partecipazione alle materie Stem), il ragionamento viene rovesciato: non è la struttura sociale a essere discriminante ma sono le donne che non competono nel modo giusto. È questo l'assunto che dobbiamo scardinare.