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Il primo a sostenere che bisognasse colpire la criminalità organizzata dove fa più male, i soldi e i beni, fu Pio La Torre. Giovanni Falcone su incarico di Rocco Chinnici, l’ideatore del pool antimafia, insieme a Paolo Borsellino seguì il flusso di denaro tra Palermo e gli Usa e così riuscì a istruire il maxi processo. A inizio anni ‘90 del Novecento Libera insieme a molte altre associazioni raccolse oltre un milione di firme, ne sarebbero state sufficienti 50.000, in calce a una legge di iniziativa popolare per il riuso a fini sociali dei beni confiscati per dimostrare la convenienza della legalità.
Quel testo divenne legge, uno dei pilastri del Codice antimafia e dal ‘96 a oggi moltissimi beni sono tornati alla collettività incarnando il senso della legalità. Qualche esempio? Dalle terre sottratte ai casalesi, oggi terre di Don Diana, affidate a cooperative sociali che hanno dato vita al primo esperimento di economia circolare e funziona. A quelle in provincia di Palermo che tolte a Totò Riina e ai suoi compari corleonesi oggi, grazie al lavoro di giovani cooperanti producono vino olio e altri prodotti con il marchio Placido Rizzotto, e a lungo potremmo continuare.
L’accordo
Ebbene, il governo Meloni, con un accordo siglato tra ministero dell’Agricoltura e quello dell’Interno ha deciso di affittare a privati le terre nella disponibilità dell’Agenzia dei beni confiscati e sequestrati. Davvero il contrario di ciò che pensavano La Torre, Falcone, Borsellino e i tanti che nel corso di questi quasi trent’anni hanno lavorato per far fruttificare legalità in quei terreni.
Una lettera per dire no
E allora Cgil, Libera, Legambiente, Arci, Forum del terzo Settore, Avviso Pubblico, Legacoop hanno preso carta e penna: “Le scriventi associazioni nazionali ritengono che vada evitato il rischio che l’assegnazione, prevista dal suddetto accordo, possa rappresentare il volano di un nuovo corso verso la privatizzazione di un patrimonio pubblico di ampia portata simbolica oltre che economica, che rappresenterebbe anche l’allontanamento dagli indirizzi della legge 109/96 e dell’articolo 48 del Codice antimafia chiaramente indirizzati al riuso sociale dei beni attraverso progetti a carattere collettivo”.
Le difficoltà del riuso sociale dei beni
Sanno bene quelle associazioni della difficoltà che si incontra nell’assegnare beni e terre confiscate: spesso gli investimenti iniziali che occorre per renderli di nuovo produttivi sono quasi insostenibili, e conoscono l’ingente patrimonio fondiario non assegnato, ma questo non ne giustifica la privatizzazione.
Perché l’accordo non va
Ma i firmatari della missiva non si sottraggono allo sforzo e alla responsabilità di proporre alternative alla privatizzazione. Partendo da alcune premesse. Innanzitutto che sarebbe stato utile e – aggiungiamo noi – forse doveroso prima di decidere ascoltare i suggerimenti di quanti da anni si occupano proprio di far rivivere i beni. Ma si sa, questo governo l’idea del confronto con i soggetti sociali e della partecipazione proprio non ce l’ha e non vuole in alcun modo praticarla. La seconda premessa è che è proprio la scelta alla base dell’ccordo che non va, hanno deciso infatti che i terreni possono essere affittati solo: “A soggetti economici totalmente privati e profit, senza prevedere il coinvolgimento dei Comuni, del Terzo settore, della cooperazione e del sindacato, che potrebbero svolgere un ruolo di promozione, affiancamento e coinvolgimento delle comunità locali rappresentato dalle buone pratiche di economia sociale”. In questo modo si tradisce lo spirito della legge del ‘96 sul riuso sociale dei beni confiscati.
La proposta
Innanzitutto bisogna parlarsi: allora sarebbe opportuno creare un Tavolo di lavoro permanente tra Agenzia dei beni sequestrati e confiscati, ministero dell’Agricoltura e i rappresentanti del Terzo settore e delle associazioni firmatarie della lettera “per ridurre al minimo le possibilità di non riuso di un terreno agricolo”. E poi ecco alcuni suggerimenti di correzioni all’Accordo: “contenga le indicazioni su un partenariato fra soggetto privato profit e soggetti sociale per garantire un accompagnamento costante rispetto alla implementazione, non solo di un progetto sociale, ma di percorsi di integrazione e reinserimento lavorativo di categorie vulnerabili, nonché allo sviluppo di filiere etiche di produzione e commercializzazione dei prodotti; i progetti di imprenditoria agricola vengano realizzati nel rispetto di vincoli per coltivazioni sostenibili sotto il profilo ambientale e sociale oltre che economico”.
Poi il lavoro, scrivono le associazioni: “Alle lavoratrici e lavoratori venga garantita la corretta applicazione dei contratti nazionali definiti dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative a livello nazionale, le norme di tutela della salute e sicurezza, prevedendo altresì espresso divieto del subappalto nella filiera agricola”. Infine: “Che vengano indicate con maggiore dettaglio le penalità e sanzioni previste in caso di mancato adempimento di quanto previsto negli accordi, fino alla esclusione, in caso di gravi inadempienze”.
La lettera è partita, i toni sono gentili e propositivi, arriverà risposta?