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Lo dicono i numeri, la cultura italiana è ancora inquinata da stereotipi e discriminazioni. La maternità è auspicata a parole ma nulla si fa per consentire alle donne di scegliere davvero cosa è meglio per sé stesse, nemmeno se avere figli e quanti visto che la maternità è ancora un ostacolo all’occupazione e al lavoro dignitoso. Un 8 marzo di riflessione, rivendicazione e lotta perché quello del prossimo anno sia migliore. Ne parliamo con Lara Ghiglione, segretaria nazionale della Cgil.
Partiamo dalla Francia, andiamo a Parigi. È stato annunciato, lo ha fatto il presidente della Repubblica francese Macron che verrà inserita in Costituzione l'autodeterminazione delle donne sul proprio corpo
È una buona notizia per le donne francesi, speriamo che per imitazione possa diventarlo anche per quelle italiane. Purtroppo in Italia siamo assai lontane da questo obiettivo e ci allontaniamo sempre più. Aumenta il fenomeno dell’obiezione di coscienza e nei singoli territori accedere all’Interruzione volontaria di gravidanza è sempre più difficile. E dall’insediamento del governo Meloni le cose sono ulteriormente peggiorate e riscontriamo proprio un'emergenza. Ad avvio legislatura il centro destra ha presentato delle proposte di legge per riconoscere i diritti civili all'embrione che, per fortuna al momento, non sono state esaminate.
Ma certo non stanno fermi, hanno avviato in diversi territori una raccolta di firme per una proposta di legge che, tra le altre cose, imporrebbe alle donne che decidono di interrompere una gravidanza di ascoltare il battito cardiaco del feto come è già stato fatto in altri Paesi. Questo dimostra anche che le destre a livello internazionale stanno attaccando proprio l'autonomia, l'autodeterminazione, la libera scelta delle donne. Siamo preoccupate, è evidente che esiste una regia dietro questi movimenti. Oggi 8 marzo e anche nei prossimi giorni faremo rumore e il nostro rumore coprirà la retorica di chi si professa dalla parte delle donne ma poi, nei fatti, agisce nel modo contrario, rendendole sempre più marginali e privandole di ogni opportunità.
Spostiamoci ma rimaniamo sempre all'estero, andiamo a Bruxelles: il Parlamento aveva prodotto un bel testo di direttiva di attuazione della Convenzione di Istanbul, ma nel passaggio verso la Commissione sono stati eliminati due punti importanti, quello che affermava che se “dico no è stupro” e quello sulle molestie nei luoghi di lavoro.
È estremamente grave ciò che è accaduto. Sarebbe stato grave se la direttiva approvata dal Parlamento europeo non avesse contemplato questi passaggi, ma il fatto di averli prima contemplati mentre poi sono stati rimossi dalla Commissione, cioè dai governi, è ancora più grave. Anche in questo caso l'autodeterminazione della donna e la scelta di dire no viene svalorizzata, e si apre la porta al considerare alcuni elementi invece che come aggravanti come “concorso di colpa”, penso a chi afferma che se la donna vittima di stupro aveva bevuto è da considerarsi un po’ meno vittima, o alla vittimizzazione secondaria che, nonostante siano passati decenni dal processo per stupro del 1979, ancora è assai diffusa anche nei nostri tribunali.
Un testo che dichiara esplicitamente che in assenza di un consenso esplicito l'atto sessuale è stupro era fondamentale ed è fondamentale. E assai grave è lo stralcio delle molestie sul lavoro. Sappiamo bene che è un fenomeno ampio, sottovalutato e sottostimato, perché la ricattabilità delle donne nei contesti di lavoro dovuto alle precarietà, al lavoro povero, alla paura di essere categorizzate rende difficile denunciare. Ed è evidente che non essendoci una fattispecie di reato specifica nel nostro Paese, è fondamentale l'inserimento di quell'articolo nella direttiva per evidenziare che questa è una forma di violenza che ha delle sue caratteristiche, che danneggia fortemente le donne nei contesti di lavoro. Insieme ai sindacati europei stiamo sostenendo alcune parlamentari europee, a partire da quelle italiane affinché si torni alla versione originaria.
Scendiamo in Italia e parliamo di lavoro, o meglio di lavoro negato, perché se guardiamo alle statistiche ci si accorge che l'Italia è ultima in Europa per occupazione femminile. Non solo, esiste una divaricazione terribile nel paese tra nord e sud, proprio per occupazione femminile. E quando le donne lavorano, nella stragrande maggioranza dei casi il lavoro è povero, precario, part time.
Negli ultimi giorni sono stati pubblicati uno studio dell'Ufficio studi della Camera, uno del Civ dell’Inps, l’Istat, e poi classifiche internazionali, i dati non mancano. E non mancano nemmeno le normative, abbiamo i dati e abbiamo le leggi per la parità occupazionale e salariale e allora perché da un anno all'altro non succede niente? Perché nella prassi non viene fatto ciò che serve per migliorare le condizioni delle donne. Faccio degli esempi. Qualche giorno fa il governo ha deciso di eliminare la condizionale del 30% di femminile nei bandi finanziati dal Pnrr. Allora la retorica reiterata ogni 8 marzo sul valore del lavoro delle donne è vuota e serve solo a lucrare un po’ di consenso. Ancora, se la discriminazione che limita l'entrata e la permanenza delle donne nel mercato del lavoro è dovuta in gran parte alla maternità, allora la prima cosa necessaria sono gli asili nido, e che senso hanno i bonus se gli asili non ci sono in metà del territorio italiano, proprio quello dove si registra il tasso più basso di occupazione femminile? Che senso ha istituire il congedo genitoriale per gli uomini ma solo per 10 giorni?
Ancora, che senso ha incentivare le ragazze allo studio delle materie Stem quando le imprese, nonostante le laureate con voti più alti dei ragazzi, continuano a preferire gli uomini? Se prima non rimuoviamo le discriminazioni in entrata, avremo tante laureate nelle materie Stem con 110 e lode, ma si continuerà a assumere gli uomini. Gli investimenti nel lavoro delle donne non ci sono, si continua con la politica dei bonus e non si investe sui servizi pubblici, sul congedo paritario, non si investe sulle cose necessarie a far diminuire i divari. E per di più gli strumenti di misurazione del lavoro delle donne, il report biennale per le aziende con più di 50 dipendenti, non vengono redatti nemmeno quando c'è l'obbligo; mancano i controlli e soprattutto non ci sono sanzioni se si dichiara il falso. Insomma, la realtà ci dice che si fa molta retorica ma non si interviene realmente per modificare la situazione.
Quello che hai descritto è un Paese con normative buone, dibattito sindacale e accademico elevato che si scontra con una realtà terribile fatta di stereotipi che discriminano le donne nel lavoro e non solo. Questo governo sta operando alla demolizione di questi stereotipi o, in maniera magari subdola, li sta rafforzando?
Li sta rafforzando, e in maniera esplicita. Quando si affronta la questione demografica, che pure è reale, si pone l’accento solo sulla maternità, colpevolizzando le donne, riconoscendo il loro valore solo come madri, si sta riportando la cultura del Paese, che speravamo passata, che assegnava alle donne un ruolo -almeno prevalentemente - riproduttivo, e a gli uomini un ruolo produttivo. Così l’occupazione femminile torna a essere marginale, non un valore in sé ma di supporto all'economia della famiglia, incentivando quella segregazione orizzontale che vuole le donne concentrate in quei settori afferenti alla cura. Ricordo che Meloni ha cambiato il ministero delle Pari opportunità nel dicastero della Famiglia, della natalità, delle pari opportunità. Un nome, un programma! Per aumentare la natalità occorre aumentare l’occupazione femminile e migliorare la qualità del lavoro. E attivare strumenti di condivisione genitoriale che consentano alle coppie di assumersi la responsabilità condivisa di fare figli.
Sembra di essere tornati alla stagione delle donne fattrici dei figli per la patria. Ma allora il punto vero è quello della rottura degli stereotipi e della modificazione della cultura, che fare?
Abbattere gli stereotipi attraverso la cultura del rispetto delle diversità. È fondamentale non solo per le donne, ma anche per quegli uomini che vogliono vivere la genitorialità senza essere a loro volta vittime di quegli stessi stereotipi. Esiste proprio un pregiudizio di base nella nostra cultura che è lo stesso che fatichiamo a sradicare rispetto al tema della violenza, nonostante siano passati decenni da quando lo stupro era rubricato come delitto contro la pubblica morale, o esistevano il delitto d’onore e il matrimonio riparatore. Più passa il tempo e più, sbagliando, pensiamo che si allontani la cultura patriarcale. Non è così, purtroppo. In realtà quando osserviamo l’età giovanissima dei carnefici e delle vittime di stupro e femminicidio, penso ai casi di Palermo o di Caivano, di Giulia Cecchettin, non possiamo non capire che la cultura del possesso, dell’oggettivizzazione delle donne, del predominio maschile si continua a tramandare di generazione in generazione.
È questo è il lato più preoccupante di questi episodi ultimi di violenza. Occorre, certo, intervenire nelle scuole con l’eduzione all’affettività e al rispetto delle differenze, ma non è sufficiente. Bisogna sostenere le famiglie, che spesso sono sprovviste di quella consapevolezza e anche della capacità di affrontare i problemi quando emergono. Ma poi dobbiamo agire anche nei luoghi di lavoro rispetto alle molestie. Non solo per tutelare le occupate: i lavoratori e le lavoratrici sono anche partner dentro una coppia, sono genitori. Occorre affermare ovunque la cultura del rispetto delle differenze e della non violenza. Occorre cambiare la cultura di marginalizzazione della donna, il lavoro e la qualità del lavoro sono fondamentali. Se una donna viene pagata meno del collega il messaggio implicito è che vale meno, che la sua professionalità vale meno, che la sua intelligenza vale meno. Se non teniamo insieme tutti questi aspetti l'obiettivo non lo raggiungeremo. Ma confido nella forza delle donne. Vedo molta consapevolezza nelle giovani generazioni. Sono convinta che moltissime donne, in forme diverse, prenderanno parola, riempiranno piazze e strade, faranno rumore per costruire un Paese diverso.