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Così Nilde Iotti ricordava la prima volta delle donne al voto: “Sentivano la gioia di essere finalmente libere, come italiane e come donne, e quella scheda su cui mani incerte o sicure tracciavano una croce, era per loro un simbolo di democrazia, di libertà e di aspirazione finalmente realizzate”.
“Lunghissima attesa davanti ai seggi elettorali - scriveva Lia Garofalo in Le italiane in Italia - Sembra di essere tornati alle code per l’acqua e per i generi razionati. Abbiamo tutte nel petto un vuoto da giorni d’esame, ripassiamo mentalmente la lezione: quel simbolo, quel segno, una crocetta accanto al nome. Stringiamo le schede come biglietti d’amore. Si vedono molti sgabelli pieghevoli infilati al braccio di donne timorose di stancarsi e molte tasche gonfie per il pacchetto della colazione. Le conversazioni che nascono tra donne e uomini hanno un tono diverso, alla pari”.
Le donne conquistano il diritto al voto appena finita la guerra e sconfitto il regime fascista. È un decreto legislativo del Consiglio dei Ministri a istituire il suffragio universale, su proposta del comunista Palmiro Togliatti e del democristiano Alcide De Gasperi. Alle urne si andrà l’anno successivo prima per le amministrative poi per far nascere la Repubblica italiana.
Il decreto legislativo luogotenenziale 1 febbraio 1945 n. 23 concederà alle maggiorenni di 21 anni il diritto di voto attivo, mentre il decreto legislativo luogotenenziale 10 marzo 1946, n. 74 concederà alle donne maggiori di 25 anni il diritto di voto passivo (le uniche a essere escluse dal diritto di voto attivo saranno le donne citate nell’articolo 354 del regolamento per l’esecuzione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza cioè ‘le prostitute schedate che lavorano al di fuori delle case dove è loro concesso esercitare la professione’).
“Un diritto che venne riconosciuto in extremis nell’ultimo giorno utile per la composizione delle liste elettorali, alla fine del gennaio ’45 - ricordava Marisa Cinciari Rodano in occasione della presentazione del libro Le donne della Costituente per la celebrazione del 60° della Costituzione (Roma, 31 maggio 2007) - ma che non fu, come taluno sostiene, una benevola concessione, ma il doveroso riconoscimento del contributo determinante che le donne, con le armi in pugno e soprattutto con una diffusa azione di massa, di sostegno alla Resistenza, avevano dato alla liberazione del Paese”.
Punto di arrivo di un percorso lungo e tortuoso, il riconoscimento del diritto di voto alle donne in Italia prende le mosse dallo Statuto Albertino (Costituzione adottata dal Regno di Sardegna il 4 marzo 1848 a Torino), che all’articolo 24 recitava: “Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili e militari, salve le eccezioni determinate dalle leggi”. Una di queste eccezioni riguardava le donne, anche se non in modo esplicito.
Nel 1877, Anna Maria Mozzoni presenta al governo la prima di una lunga serie di petizioni per il voto politico alle donne che sarà bocciata, nello stesso momento le donne che ne hanno i requisiti prescritti dalla legge cominciano ad essere iscritte nelle liste elettorali (nel 1867 il deputato Salvatore Morelli presentava un primo disegno di legge per consentire il voto alle donne dal titolo ‘Abolizione della schiavitù domestica con la reintegrazione giuridica della donna, accordando alla donna i diritti civili e politici’. La proposta, respinta con voto della Camera dei deputati, sarà ripresentata nel 1875).
“Ora - dirà la Mozzoni - questa massa di cittadini che ha diritti e doveri, bisogni ed interessi, censo e capacità, non ha presso il corpo legislativo nessuna legale rappresentanza, sicché l’eco della sua vita non vi penetra che di straforo e vi è ascoltata a malapena.… trovandoci noi donne, perciò, al giorno d’oggi, alla eguale portata intellettuale di una quantità di elettori uomini che il legislatore dichiara capaci, stimiamo che nulla costi acché venga a noi pure accordato il voto politico, senza del quale i nostri interessi non sono tutelati ed i nostri bisogni rimangono ignoti”.
Intanto le Corti di appello cominciano a trovarsi nella condizione di dover bocciare il riconoscimento dell’elettorato politico alle donne che alcune Commissioni elettorali provinciali accolgono (la Corte di appello di Ancona presieduta da Lodovico Mortara sarà l’unica ad accogliere nel 1906 la richiesta di inclusione delle donne nelle liste elettorali presentata da nove maestre di Senigallia e da una di Montemarciano. Al terzo e definitivo grado di giudizio la sentenza sarà comunque rovesciata). Così la Corte di appello di Firenze giustificherà il respingimento della richiesta: “Potrebbe avvenire che una maggioranza di donne venisse a formarsi in Parlamento, che coalizzandosi contro il sesso maschile, obbligasse il Capo dello Stato, scrupoloso osservatore delle buone norme costituzionali, a scegliere nel suo seno i consiglieri della Corona, e dare così al mondo civile il nuovo e bizzarro spettacolo di un governo di donne, con quanto prestigio e utilità del nostro paese è facile ad ognuno immaginarsi”.
Anche Argentina Altobelli prenderà posizione su La Squilla a favore del voto alle donne, da conquistarsi “non per le viottole contorte delle distinzioni e dei privilegi, ma per la gran via maestra del suffragio universale concesso a tutti, senza tener conto del sesso, delle condizioni, e anche agli analfabeti” (nel 1904 era stato costituito il Consiglio delle donne italiane, aderente all’International Council of Women. Il Consiglio aveva organizzerà a Roma, in Campidoglio, nel 1908 il primo Congresso delle donne italiane, inaugurato dalla Regina Elena. L’obiettivo è quello di estendere il diritto di voto delle donne delle classi più elevate).
Nel maggio del 1912 durante la discussione del progetto di legge della riforma elettorale, che avrebbe esteso il voto anche agli analfabeti maschi, i deputati Giuseppe Mirabelli, Claudio Treves, Filippo Turati e Sidney Sonnino proporranno un emendamento per concedere il voto anche alle donne. Giolitti vi si opporrà strenuamente, definendolo un salto nel buio. La questione, rimandata all’esame di un’apposita commissione, sarà accantonata.
Dopo la triste parentesi fascista, le prime elezioni politiche in Italia si svolgono nel giugno del 1946, quando la popolazione viene chiamata a votare sul referendum istituzionale monarchia-repubblica e per eleggere l’Assemblea costituente (già qualche mese prima alcune donne erano andate alle urne per le amministrative comunali. In quell’occasione saranno elette le prime donne sindaco della nostra storia).
“Questo avvenimento - scriveva l’Unità il 31 gennaio 1945 commentando la riunione del Consiglio dei ministri del giorno precedente nella quale si era discusso del suffragio femminile, approvato come qualcosa di ovvio ed inevitabile - è una grande vittoria della democrazia, giacché una forza politica nuova viene immessa nella vita nazionale (…) si tratta di una scelta validissima di nuovi dirigenti, i quali, particolarmente per quanto concerne i problemi della vita cittadina, della vita locale, hanno l’enorme vantaggio di conoscere e sentire più direttamente i bisogni più immediati dei singoli e delle famiglie. Una ventata di sano buon senso entrerà sicuramente nella vita politica, e nella vita amministrativa entrerà con le donne un maggior spirito di concretezza”.
Le donne conquistano il diritto di voto e il diritto di partecipare alla vita politica del nostro Paese, ma la strada sarà - come spesso accade ed è accaduto - in salita.
Se si analizza l’andamento della presenza femminile in Parlamento si può notare come siano stati necessari 30 anni per eleggere più di 50 donne (quota 100 è stata superata solo nel 1987, quota 150 nel 2006). Dal 2006 la crescita della componente femminile risulta più rapida, tanto è vero che nel 2013 il numero delle donne risulterà raddoppiato (299, pari al 30,7%). Nei primi trent’anni di vita della Repubblica italiana i Consigli dei ministri sono composti esclusivamente da uomini: bisogna attendere il 1976 perché una donna, Tina Anselmi, sia nominata ministro del Lavoro e della Previdenza sociale dall’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti.
Solo dal 1983, col governo Fanfani V, la presenza di ministre è diventata costante. Nel 1988, per la prima volta nella storia della non più giovanissima Repubblica, il presidente del Consiglio, Ciriaco De Mita, nomina due ministre: Rosa Russo Iervolino agli Affari sociali e Vincenza Bono Parrino ai Beni culturali. La media delle donne ministro tende pian piano a salire e raggiunge il 10,7% nel Governo Ciampi del 1993 (nei successivi Governi Berlusconi I e Dini la quota scenderà nuovamente attorno al 5%). Una crescita importante si avrà con Massimo D’Alema nel 1998: ‘quote rosa’ al 22% ed una donna, Rosa Russo Iervolino, ministra dell’Interno.
La media tenderà a scendere con i governi Amato e Berlusconi per risalire notevolmente (circa un quarto del totale) con Romano Prodi, fino a raggiungere con il Governo Renzi la piena - anche se temporanea - parità (delle 8 ministre presenti all’avvio del Governo, tre presenteranno le dimissioni e saranno sostituite da uomini. Nell’esecutivo Gentiloni la percentuale di donne al Governo scende al 28,33%, al 17,19% nel Conte I, per salire al 34,28 nel Conte II. 8 le ministre del Governo Draghi). Soltanto in cinque casi la Presidenza della Camera è stata affidata a una donna (Nilde Iotti per tre legislature, Irene Pivetti e Laura Boldrini), in un solo caso la Presidenza del Senato (Maria Elisabetta Alberti Casellati).
Su oltre 1500 incarichi di ministro assegnati in 70 anni di storia repubblicana le donne ne hanno ottenuti più o meno 80 (di cui circa la metà senza portafoglio). Alle ministre sono stati affidati incarichi prevalentemente nei settori sociali, della sanità e dell’istruzione. Nessuna donna ha mai rivestito l’incarico di ministra dell’Economia e delle finanze. Nessuna donna è mai stata nominata presidente del Consiglio né eletta - se ne è parlato non sempre a proposito tanto nei giorni appena trascorsi - alla Presidenza della Repubblica.