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A volte i percorsi della storia sono imperscrutabili, ma rilevanti. Emilio Miceli cominciò il suo percorso nelle file della Fgci, l’organizzazione giovanile del Pci, di Palermo. Il segretario della Federazione del Pci del capoluogo siciliano era Pio La Torre, proveniva da un’esperienza lunga e talmente significativa che lo segnò per sempre, nel sindacato, nella Cgil. Fu nelle lotte per la terra che si formò, provenendo da una famiglia di braccianti agricoli e poveri. In realtà la sua prima lotta fu condotta per poter frequentare la scuola: nell’istruzione, infatti, intravedeva lo strumento di emancipazione.
La Torre passò dalla Cgil all’impegno politico partitico, mentre Miceli ha compito il percorso inverso, ha cominciato la sua vita pubblica nel Pci per poi passare al sindacato. Prima nell’isola dove è nato e poi assumendo incarichi sindacali nazionali, fino a essere eletto nella segreteria confederale della Cgil. Da poche settimane ha assunto la presidenza proprio del Centro studi Pio La Torre. Miceli, attraverso il pensiero di chi morì per mano mafiosa, legge le contraddizioni dell’Italia di oggi.
Da qualche settimana sei presidente del Centro Pio La Torre. Mi racconti, innanzitutto, le tue emozioni ad assumere questo ruolo?
Sono cresciuto con Pio La Torre, ero segretario della Fgci quando lui era segretario regionale del Pci, ho vissuto tutta quella fase come la può vivere un ragazzo di 25 anni. Palermo era una città al centro di una guerra di mafia, da un lato, e di un attacco allo Stato, dall'altro, senza precedenti. Nessuno di noi metteva in conto che potesse -come poi disse proprio La Torre - toccare a noi, toccare a lui. Quando mi hanno chiesto di fare il presidente del Centro sono stato onorato e contento di poter svolgere un ruolo nella mia città nella lotta alla mafia e nei mille problemi che riguardano la legalità. È un modo per continuare in un impegno politico e sociale.
Ci sono due elementi del pensiero di Pio La Torre di grande attualità: battersi per l'affermazione della legalità e contro la mafia, e l’impegno fortissimo per la pace
Se ripenso a quella fase, l’impegno di La Torre ruotava attorno a quattro temi. Anzitutto la lotta alla mafia e l'assalto dello Stato attraverso l’arricchimento illecito, poiché era convinto che per sconfiggere i mafiosi occorreva impoverirli. I mafiosi possono accettare il carcere, finanche l'ergastolo, ma non l'idea che il loro status possa modo essere minacciato. La seconda questione era l’impegno per la pace. Per lui vedere la Sicilia così pesantemente coinvolta in un gioco più grande, come avamposto nel Mediterraneo in un progetto di riarmo complessivo, gli faceva dire che per l'Italia e per la Sicilia c'erano buone ragioni per provare a fermare questo processo. Immaginò anche la semplice sospensione della decisione pur di allargare il movimento e farlo diventare più incisivo.
La Torre era anche molto attento alle questioni sociali…
La terza questione, infatti, era quella sociale, con particolare attenzione al lavoro. Era un ex sindacalista, nato e cresciuto in borgata, nato e cresciuto nelle vertenze prima contadine e poi operaie, quindi per lui il tema della dignità del lavoro e dell’occupazione era centrale. Poi, da inguaribile regionalista, anzi autonomista, nel senso che crebbe dentro la cultura dell'autonomia regionale siciliana, avvertiva la necessità di ricostruire o di riformare lo statuto della Regione perché lì si potevano trovare le nuove idee per una nuova autonomia regionale.
La Torre è stato anzitutto un sindacalista, sperimentò il carcere per aver occupato le terre incolte. Quale sarebbe la sua reazione oggi guardando a Latina, al caporalato, all'uccisione di un lavoratore migrante, in nero e sfruttato?
Un uomo che viene dalla terra, da una famiglia di contadini poveri, quel modello di sfruttamento lo conosceva bene. Certo, oggi cambiano i soggetti: una volta erano i contadini italiani, adesso sono i migranti, ma quel modo di fare impresa lo ha combattuto. L'occupazione delle terre era al tempo stesso sia l'esigenza di dare un colpo al latifondo, all’inutilizzabilità delle terre incolte da parte dei grandi feudatari e delle dinastie nobiliari che lasciavano i campi morire, sia la necessità di dare risposte a quel mondo contadino e del bracciantato rappresentato dal sindacato e dalla sinistra. Cosa direbbe? Non ho dubbi sul fatto che troverebbe di uno squallore assoluto che nel 2024, a tanti anni dalla sua morte, dobbiamo continuare a ragionare sul fatto che c'è un imprenditore che di fatto lascia una persona massacrata sul ciglio di una strada in nome del profitto.
Quello che sconcerta è che il padre del titolare dell'azienda dove lavorava Satnam Singh era sotto indagini da cinque anni per caporalato. Cinque anni di inchiesta e in quell'azienda ancora si pratica il caporalato. E alla fine ci è scappato il morto. Che giustizia è quella che non ferma il lavoro di una simile impresa, in una provincia – Latina – dove tutti sanno che nelle aziende agricole il caporalato è diffuso?
Penso ci siano due elementi cui bisognerebbe prestare più attenzione. Innanzitutto, forse a Milano non sarebbe successo: lì la Procura ha deciso di applicare misure di prevenzione a quanti sono perseguiti per il reato di caporalato. La Procura di Milano ha utilizzato lo strumento del controllo giudiziario sulle grandi imprese italiane, l'ha fatto avendo la consapevolezza che su questo versante esiste la possibilità di inquinamento sociale, politico ed economico del Paese. E questo non riguarda più solo il piccolo caporale o la piccola azienda, riguarda anche grandi aziende.
Cosa accade invece nel Mezzogiorno?
Nel Sud Italia non ho visto una sola procura utilizzare le misure di prevenzione di fronte a fatti di caporalato. C'è una cultura giuridica diversa, nel Mezzogiorno comportamenti simili vengono vissuti come tipici della nostra storia, della nostra vita morale. Esiste una sorta di rassegnazione meridionale che va combattuta e io credo sia un problema della società in quanto tale, della magistratura. Bisogna fare in modo che piaghe di questo tipo possano essere combattute e sconfitte.
Parliamo di pace e di guerra. Siamo in presenza di due grandi conflitti in Ucraina e in Medio Oriente. La soluzione che gli Stati hanno trovato è quella di sostenere da un lato gli ucraini con le armi, mentre dall'altro Israele, che certamente è stata attaccata, sta rispondendo a questo attacco con logiche da massacro. Quale sarebbe invece la reazione che bisognerebbe avere?
La prima domanda che bisogna porsi è se esista un modo per riportare un po' di ordine mondiale per una gestione delle relazioni internazionali. Non è possibile che ancora oggi si possa assistere ad aggressioni, invasioni, atti di guerra. Il mondo è interdipendente, le relazioni internazionali vivono una fase assai critica e possono diventare elementi di deflagrazione di conflitti generalizzati. Penso ci sia poca coscienza attorno a questo, e non sto parlando di chi va alle trattative o di chi gestisce le relazioni internazionali, parlo dei cittadini e delle cittadine del mondo. Al tempo di Comiso, 100 mila persone invasero quella città, ed erano più quelli che venivano da fuori che quelli del luogo, la città fu completamente invasa, ci fu una percezione diversa dei rischi che si correvano, percezione diversa da parte dei cittadini e delle cittadine, ma anche delle forze politiche e dei sindacati. Oggi si ha la sensazione che alla contrapposizione di opinioni non corrisponda nessun tentativo reale di risolvere i conflitti, che nessuno abbia la capacità di spingere perché si trovi una soluzione. Insomma, ciascuno – gli individui e forse anche gli Stati – pensa di potersi salvare da solo, ma è sempre meno possibile. E questo modo di pensare è assai preoccupante.
La Torre era un autonomista: quale sarebbe la sua reazione rispetto all'autonomia differenziata di Calderoli?
L'autonomismo di La Torre non era mica questa specie di lotta degli uni contro gli altri. Le classi dirigenti di quel tempo, siciliane e non solo, si misurarono con un problema drammatico: la necessità di conquistare interi territori del nostro Paese, con modalità diverse, all'idea dell'unità nazionale. L'autonomismo regionale siciliano nacque come elemento per concorrere verso una unità nazionale politica sostanziale.
Oggi non è così?
Per nulla. Ci troviamo di fronte al fatto che si è deciso – anche se vedremo cosa succederà nelle prossime settimane e nei prossimi mesi – che chi è forte farà da sé. Ma che Paese è quello che non è capace di tenere insieme la Calabria con la Lombardia? Il vero grande problema è che il Paese sta perdendo la capacità di provare ad affrontare i problemi insieme. Cosa altro è l'autonomia differenziata se non il fatto che alcune Regioni vogliono integrarsi sempre di più dentro l'Europa a scapito delle altre? Il paradosso è che questo progetto viene avallato dalla forza più nazionalista che abbiamo nel Paese, Fratelli d'Italia. Meloni passerà alla storia come la presidente del Consiglio, espressione della destra nazionalista e patriota, che frantumerà il Paese.
Pio La Torre è stato l'inventore della moderna strategia contro la mafia, quella che indusse Falcone e Borsellino a “seguire l'odore dei soldi” e che poi portò Libera a raccogliere un milione di firme in calce a una legge di iniziativa popolare per il riuso sociale dei beni confiscati. Il ministro dell'Agricoltura Lollobrigida, insieme al quello dell'Interno Piantedosi, ha presentato un protocollo per mettere a gara le terre confiscate per venderle ai privati. Ti sembra coerente con il pensiero di La Torre?
Mi sembra di rivivere la storia dei protocolli di legalità. Li inventammo a Palermo, erano strumenti ideati da soggetti della società civile, poi passarono nelle mani di prefetti e istituzioni perdendo il carattere sociale che li aveva fatti vivere. L’idea di Pio La Torre, e poi la legge sul riutilizzo dei beni confiscati, era quella di restituire alla società civile quanto sottratto con l’illecito arricchimento dalle mafie. Due ministri, insieme al direttore dell’Agenzia dei beni confiscati e sequestrati, hanno deciso di fare una cosa che, quantomeno, andrebbe guardata in tutte le sue possibili implicazioni.
Quali sarebbero?
Sicuramente ci sarebbe voluto un confronto con le organizzazioni che su quel terreno si misurano da anni, mi riferisco alle organizzazioni della rappresentanza sociale e sindacale, a quelle del terzo settore, insomma con quanti da anni gestiscono i beni, quelli che nel corso del tempo sono stati frontman nella battaglia per l'uso sociale dei beni e che non vengono nemmeno ascoltati, nemmeno presi in considerazione, preferendo un circuito tutto istituzionale. Probabilmente, se vi fosse stata una discussione di merito con chi si occupa dei beni confiscati, quel protocollo non sarebbe così. In ogni caso, non contesto il fatto che una terra che non vuole nessuno possa essere concessa a privati, vorrei capire com'è che un privato possa mettere a frutto delle terre che non interessano nessuno. Forse non è vero che è infruttuosa. Inoltre, la legge sul riuso sociale dei beni non era soltanto una legge efficientista e produttivista, mettere a profitto beni abbandonati per creare valore e occupazione.
Quell legge, inoltre, ha anche un alto valore sociale…
La legge sul riuso sociale dei beni confiscati alle mafie, infatti, era anche una sfida alle organizzazioni criminali che si fondava e si fonda sulla ‘restituzione’ ai cittadini e alle cittadine dei beni frutto dell'illecito arricchimento, così che vengano risarciti dal male che le organizzazioni mafiose hanno fatto. Mi colpisce, quindi, il fatto che quel valore culturale, quell’insegnamento pedagogico della legge, venga immolato all’efficienza e al profitto di privati. Quel protocollo contraddice la finalità della legge che vedeva nella restituzione ai cittadini i beni e i valori, l’esaltazione della lotta contro la mafia. Era un messaggio politico, tale vorrei rimanesse.