Dell’assurda proposta di legge presentata e poi ritirata dalla Lega in meno di 24 ore, che pretendeva di vietare la declinazione del genere femminile di “titoli istituzionali dello Stato, gradi militari e titoli professionali…”, arrivando a proporre una sanzione di 5 mila euro per chi utilizza, ad esempio, termini come “sindaca” “prefetta”, “avvocata”, “rettrice”, devono preoccuparci diversi aspetti.

Partiamo dal più banale: chi la stava proponendo siede negli scranni del Senato per rappresentare le cittadine e i cittadini ma non conosce la lingua italiana, con la quale dovrebbe esprimersi e magari anche comprendere ciò che viene detto.

I titoli e le professioni declinati al femminile infatti, non si possono considerare dei neologismi, ovvero delle parole nuove non esistenti precedentemente, ma semplicemente la declinazione corretta “per genere” di un termine già esistente al maschile e comunemente utilizzato, sia per uomini sia per donne, per la scarsa presenza del genere femminile in quel settore o in quell’incarico.

Lo conferma il normale utilizzo del femminile per indicare professioni o ambiti nei quali le donne sono storicamente molto presenti (infermiera, maestra) a differenza di incarichi o professioni dalle quali le donne sono state storicamente escluse, anche a causa di evidenti discriminazioni. Sino a qualche decennio fa per una donna ambire a diventare sindaca di una città o rettrice di un ateneo era qualcosa di impensabile. Le pochissime che nel tempo ci sono riuscite sono state quasi sempre nominate al maschile per evidenziare un’anomalia.

Quest’anomalia rischiava di essere certificata con il conseguente rafforzamento di quel soffitto di cristallo che non siamo ancora riuscite a distruggere come vorremmo. Non a caso la proposta di legge è stata presentata da un senatore. Da un uomo che pretende di decidere come dobbiamo essere nominate.

Dalla precedente riflessione ne deriva che la declinazione del linguaggio non è solo un tema di carattere linguistico, o un problema di forma, ma è soprattutto una questione di sostanza. Un tema politico. Se non puoi essere nominata non esisti nella tua interezza di persona che sta rivestendo un incarico o svolgendo una professione. Questione che le destre al governo conoscono bene.

Non a caso la presidente del Consiglio chiese di essere chiamata al maschile per rimarcare che, di norma, le donne non sono abbastanza autorevoli per rivestire ruoli tanto rilevanti e rimanere fedele alla sua cultura originaria. Per la quale lei stessa, altrimenti, potrebbe essere considerata un’anomalia.

E guarda caso questa proposta di legge è arrivata mentre nel Paese – anziché discutere di come promuovere avanzamenti concreti per incrementare la buona occupazione delle donne, abbattere i divari salariali e promuovere una maggiore partecipazione delle donne alla vita economica, sociale e politica del Paese – si disquisisce sulla maternità come responsabilità primaria delle donne, si valorizza chi decide di fare almeno due figli e si tenta in ogni modo di mettere in discussione l’autodeterminazione delle donne e la possibilità di mettere fine a una gravidanza non desiderata, senza essere sottoposte a colpevolizzazioni e forme di violenza di Stato, come quella aberrante dell’ascolto del battito cardiaco del feto.

Insomma, il tentativo di ripristinare un ordine sociale, dentro il quale le donne sono innanzitutto fattrici e poi se capita, lavoratrici part-time, è già molto evidente. Non sono semplici parole. È la nostra vita di donne intere che vogliamo difendere e preservare. 

Lara Ghiglione è segretaria confederale della Cgil