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In un’intervista a Le Journal il 14 novembre del 1922, Benito Mussolini dichiarava: “Consentitemi di ammettere che non credo di estendere il diritto di voto alle donne. Sarebbe inutile”. In parte contraddicendo il suo capo, il 22 novembre del 1925 effettivamente il fascismo fa entrare in vigore la legge n. 2125 (nota come “il voto delle signore”) che per la prima volta rende le italiane elettrici in ambito amministrativo.
Ma non votano proprio tutte, tutte le donne…
Il provvedimento recita:
Sono inscritte nelle liste elettorali amministrative le donne che hanno compiuto il 25° anno di età ovvero lo compiono non più tardi del 31 maggio dell’anno in cui ha luogo la revisione delle liste e che si trovino in una delle seguenti condizioni:
- che siano decorate di medaglia al valore militare o della croce al merito di guerra;
- che siano decorate di medaglia al valore civile, o della medaglia dei benemeriti della Sanità pubblica o di quella dell’istruzione elementare o di quella per servizio prestato in occasione di calamità pubbliche conferita con disposizione governativa;
- che siano madri di caduti in guerra;
- che siano vedove di caduti purché non siano state private del diritto alla pensione (…);
- che abbiano effettivo esercizio della patria potestà della tutela e sappiano leggere e scrivere;
- che abbiano, se nate antecedentemente al 1894, superate l’esame di promozione della terza elementare; se nate posteriormente, che producano un certificato di promozione dell’ultima classe elementare esistente, al momento dell’esame, nel Comune o frazione di loro residenza (…);
- che paghino annualmente nel Comune nel quale vogliono essere iscritte, per contribuzioni dirette erariali di qualsiasi natura ovvero per tasse comunali esigibili per ruoli nominativi, una somma non inferiore complessivamente a 100 lire e sappiano leggere e scrivere (…)
Insomma non possono votare proprio tutte le donne, e anche quelle alle quali la legge lo avrebbe consentito, di fatto, non voteranno mai.
Una legge resa subito inutile
La legge sul “voto alle signore”, infatti, sarà resa inutile dalla riforma podestarile entrata in vigore pochi mesi dopo e precisamente in data 4 febbraio 1926: ogni elettorato amministrativo locale viene annullato, si sostituisce al sindaco il podestà che, insieme ai consiglieri comunali, non viene eletto dal popolo, ma nominato dal governo.
E - verrebbe da dire - non finisce mica qui.
Con il regio decreto 2480 del 9 dicembre 1926 le donne saranno escluse dalle cattedre di lettere e filosofia nei licei, verranno tolte loro alcune materie negli istituti tecnici e nelle scuole medie, si vieterà loro di essere nominate dirigenti o presidi di istituto (già il regio decreto 1054 del 6 maggio 1923 - riforma Gentile - vietava alle donne la direzione delle scuole medie e secondarie. Per estirpare il male veramente alla radice, saranno raddoppiate le tasse scolastiche alle studentesse, scoraggiando così le famiglie a farle studiare).
Una legge del 1934 (legge 221) limiterà notevolmente le assunzioni femminili, stabilendo sin dai bandi di concorso l’esclusione delle donne o riservando loro pochi posti, mentre un decreto legge del 5 settembre 1938 fisserà un limite del 10% all’impiego di personale femminile negli uffici pubblici e privati.
L’anno successivo, il regio decreto n. 989/1939 preciserà addirittura quali impieghi statali potessero essere alle donne assegnati. Sempre per la serie “hanno fatto anche cose buone”…