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Sanremo, italica croce e delizia. Evento mediatico e sociologico: sdogana stili, fa esplodere carriere, crea e distrugge mode e personaggi. Anche se non piace va visto, perché quello che accade su quel palco davanti a 10 milioni di spettatori non è solo spettacolo, ma diventa fenomeno sociale. Ecco perché il vezzo di Beatrice Venezi, la più giovane direttrice d’orchestra italiana sul palco dell’Ariston, di farsi chiamare “direttore”, ha suscitato tante polemiche: in italiano esiste il sostantivo femminile "direttrice" e quindi è grammaticalmente sbagliato usare il maschile per riferirsi a una donna. Resta che, con la polemica, l’operazione mediatica è riuscita, come sempre accade a Sanremo.
Dalla sua Venezi ha che quello della musica è un ambiente storicamente misogino e maschile, e che oggi su 600 direttori d’orchestra, le direttrici sono appena 21. E se la parola direttrice evoca non l’orchestra ma i corridoi di una scuola elementare, il direttore rimanda immediatamente a una persona importante. È il sessismo intrinseco della nostra cultura e del nostro immaginario, lo stesso che di una donna in gamba ci fa dire che è una donna con le palle: il maschile simboleggia il potere, il successo, il femminile no.
Quello dei sostantivi professionali però è un tema che da sempre altera gli animi. Da un lato chi rivendica la purezza della lingua, la musicalità, la differenza tra “carica” e lavoro; dall’altro chi ritiene che le conquiste vadano segnate, anche verbalmente. La lingua, spiegano i cultori, non è statica ma viva e si modifica con l’uso, recependo le trasformazioni della società, degli usi e dei costumi. Certo, i cambiamenti provocano un’istintiva reazione di blocco a difesa dello status quo, il che dopo secoli di segregazione non gioca a favore delle conquiste professionali e linguistiche delle donne.
Solo recentemente abbiamo introdotto "smartabile" e "remotizzato" per parlare di lavoro, eppure nessuno si è scandalizzato; ci indigniamo invece per arbitra, ministra o architetta. Non più di una settimana fa l’ordine degli architetti di Bologna ha negato alle donne che ne avevano fatto richiesta l’utilizzo di “architetta” nel timbro professionale, mentre in altri territori è una pratica già sdoganata da tempo come a Roma, Milano ma anche Modena, Bergamo e da gennaio anche Cagliari.
È la storia delle conquiste professionali delle donne a fare la storia dei femminili professionali, soprattutto quando si parla di quelle professioni ritenute a lungo non adatte alle donne: nel 1965 la prima donna entra in magistratura e fatichiamo ancora a dire magistrata. Anche nel sindacato, nonostante la svolta epocale rappresentata da Camusso e Furlan, che hanno contemporaneamente guidato le due maggiori organizzazioni di rappresentanza del Paese, si fatica ancora a riconoscere la medesima autorevolezza semantica alla segretaria generale rispetto al segretario generale. Ecco perché chi fa comunicazione, soprattutto comunicazione politica o pubblica, su un palco come sui media, ha la responsabilità di usare le parole per costruire il cambiamento o per ostacolarlo