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Campagna dei carabinieri contro il caporalato in agricoltura nei primi dieci giorni di agosto. Sono state complessivamente controllate 958 aziende, di cui 507 sono risultate irregolari. La maggior parte dei lavoratori in nero rilevati sono migranti extracomunitari, 213 su di un un totale di 346, 29 i minori e tra loro 9 in nero. Numerosi i provvedimenti di sospensione dell’attività' imprenditoriale, di diffida e prescrizioni amministrative.
Su 486 persone denunciate 19 sono accusate di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, vale a di dire caporalato, nelle province di Torino, Brescia, Mantova, Verona, Piacenza, Trento, Ascoli Piceno, Perugia, Rieti, Roma, Teramo, Pescara, Caltanissetta, Siracusa e Nuoro, Rovereto.
Non solo Sud
Si conferma quindi che il fenomeno del caporalato non caratterizza solamente il lavoro nei campi del Sud o del Centro del nostro Paese, come invece per molto tempo troppi hanno creduto.
“È un’idea che non ha più senso – ci dice Francesco Carchedi, sociologo e coordinatore dell’Osservatorio Palcido Rizzotto –. Già il primo rapporto dell’Osservatorio del 2011 evidenziò la compresenza di questo sistema nelle tre grandi ripartizioni italiane, Sud, Centro e Nord e altri studi fatti dalla Flai Cgil con il Dipartimento di studi giuridici dell’Università di Firenze, analizzando circa 400 sentenze dei Tribunali contro il caporalato, hanno evidenziato come almeno 250 stanno al Nord e il resto 150 suddivisi tra Centro e Sud”.
Qualcuno ha anche obiettato che l’efficienza della polizia è maggiore al Nord e quindi emergono più casi di caporalato, ma questa per Carchedi “è una tesi che non regge perché la polizia, la guardia di finanza, i carabinieri colgono con maggiore evidenza il caporalato laddove ci sono delle aree di maggior ricchezza agroalimentare e questa è presente nelle grandi province del Nord, come Verona Forlì, Cesena, Ravenna, Mantova, Asti, Cuneo, Treviso con il prosecco, Trento con la raccolta delle mele.
"È chiaro – prosegue – che, avendo un valore aggiunto economico alto, le aziende hanno bisogno di manodopera molto estesa. Questa necessità implica una concorrenza fortissima nel reclutare la manodopera, perché i servizi di collocamento e quelli per il lavoro non funzionano e quindi questa concorrenza viene esercitata attraverso l'individuazione dei caporali o delle cooperative che sono disposte al subappalto”.
Il coordinatore dell’Osservatorio Palcido Rizzotto porta l’esempio della Pianura padana “che ha una ricchezza agroalimentare enorme, ancora più del Sud, perché ci sono le grandi filiere e la grande distribuzione che invece nel Mezzogiorno non c’è. La maggior parte dei prodotto coltivati al Sud vengono mandati al Nord per essere lavorati e poi ritornano nel meridione come prodotti finiti, quindi c'è un modo di produzione che nelle regioni settentrionali è molto più sviluppato”.
Nei momenti apicali della raccolta è richiesta una manodopera assai consistente che in parte viene dall’Est, ma anche quella dal sud Italia. “Questo fenomeno – afferma Carchedi – non fa più nessuna meraviglia, le organizzazioni sindacali lo conoscono benissimo e la Flai è in prima linea insieme a moltissime altre associazioni che operano con i migranti, soprattutto nei centri d'accoglienza dove da qualche anno si cerca di sensibilizzare i migranti che si mettono a disposizione del mercato del lavoro agricolo per far loro capire che sotto una certa soglia di trattamento salariale e di diritti non si può andare”.
Non solo agricoltura
Il caporalato è diffuso ad altri settori della produzione che non sono solamente l’agricoltura come accadeva sino a dieci anni fa, “con la perdita più diffusa di tutta una serie di conquiste fatte nei decenni precedenti con i lavoratori italiani per l'innesto di manodopera straniera”.
“L’edilizia – dice il nostro interlocutore – ha avuto una grossa crisi, dalla quale si è ripresa negli ultimissimi anni, quindi lì il caporalato, pure esistente, non aveva quelle caratteristiche di evidenza sociale che assunto poi negli ultimi tempi. Oltre che nell’edilizia il caporalato si è diffuso nei settori del commercio, della logistica, del turismo e anche in alcune aziende che hanno un nome internazionale".
Carchedi quindi spiega: “Il modello che è andato consolidandosi é che un'azienda può avere tre tipi di manodopera: uno completamente regolarizzato, quindi standard, il secondo è il lavoro grigio e il terzo è il lavoro nero in modo che queste tre fasce fungano da compensatori. Così il lavoro standard ha un costo che viene ammortizzato con il lavoro grigio e nero. In questo modo i datori di lavoro hanno un aumento dei ricavi che va a confluire in quella che è definita economia sommersa, o economia non osservata, che consiste in una cifra enorme, attorno ai 160 miliardi di euro, che poi equivale a tutto il Pnrr”.
"Le aziende truffaldine – prosegue il sociologo – pensano soltanto a un bieco interesse personale, dimenticando qualsiasi etica pubblica arrivando talvolta anche a punte di lavoro da para-schiavi. Questo si deve anche a un ricorso ad appalti e subappalti a cascata in modo massiccio, sino ad arrivare al caporale senza che l'azienda madre, da cui parte la catena, non abbia formalmente alcuna responsabilità”.
Secondo Carchedi sarebbe necessaria “la forza, o meglio la volontà politica, di acquisire le entrate di questa fascia dell’economia sommersa, in gran parte prodotta dal lavoro gravemente sfruttato. Un lavoro che ha prodotto un esercito di lavoratori poveri, che lavorano tutto il giorno ma hanno condizioni di vita inaccettabili”.