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Questa è la settima tappa di un viaggio, che ci auguriamo non breve, tra storie di inclusione, resistenza e disobbedienza civile. Storie di persone, istituzioni, associazioni e sindacati che compongono un'Italia diversa. Perché a fare da contrappeso al razzismo strisciante che trapela dalla comunicazione e dagli atti istituzionali del governo giallo-verde non c'è solo l'accoglienza stroncata a Riace. C'è anche un'Italia che resiste, giorno dopo giorno, all'odio contro i migranti riversato sui social network da migliaia di account, veri o falsi che siano. Un'Italia che dice no. Un pezzo di Paese che spesso non ha voce, che non trova quasi mai spazio nei talk show televisivi, nei “trend topics”, o sulle prime pagine dei quotidiani. Eppure c'è, e si dà da fare. Sempre nel rispetto dei princìpi della Costituzione.
Prima tappa: Saluzzo | Seconda tappa: Catania | Terza tappa: Ventimiglia | Quarta tappa: Ferrara | Quinta tappa: Matera | Sesta tappa: Gioia Tauro
Paolo Camillo Margherita Giuseppe Maria Thaon di Revel era figlio del conte Ottavio, ministro delle Finanze del Regno d’Italia, amico intimo di re Carlo Alberto, senatore e firmatario dello Statuto Albertino. Nobile e massone, vantava tra i suoi avi due viceré di Sardegna, generali, cavalieri della Santissima Annunziata, ministri, prefetti e governatori. Divenne capo di Stato Maggiore della Regia marina durante la prima guerra mondiale e insieme al vate D’Annunzio trasformò Venezia in un vero e proprio laboratorio della nuova guerra aeronavale. Salvò così l’esercito serbo in rotta di fronte agli austriaci, lavando nel sangue l’Onta di Lissa (da cui dicono fosse ossessionato). Per questo venne onorato dei titoli di “Duca del mare” e di “Grande ammiraglio”. Una delle poche foto che lo ritraggono, tutta sgranata e un po’ traslucida, lo sorprende però con un’espressione persa nel vuoto, quasi attonita. E che contrasta decisamente con i folti baffi a manubrio, la gran messe di medaglie e due grossi favoriti ancora ottocenteschi. Un centinaio di anni dopo, il 15 giugno 2019, lo sguardo del suo successore allo Stato Maggiore appare ben più marziale, mentre sulla banchina della Fincantieri di Muggiano si procede al varo del pattugliatore polivalente d’altura che porta proprio il nome di Thaon di Revel. Tra la fanfara dei militari in grande uniforme, i passi cadenzati degli anfibi sul cemento e lo sventolio incessante del tricolore, sotto la minacciosa presenza della grande nave spiccano anche il bianco e l’arancione dei caschetti di un gruppo di lavoratori. Se ne stanno stretti tra loro, impettiti, con le braccia dietro la schiena. E paiono tutti un po’ intimoriti dalla solennità del momento. A un primo colpo d’occhio, sembrerebbe che nessuno tra loro sia un immigrato. Anche se molto probabilmente una parte cospicua del nuovissimo pattugliatore è stata tirata su proprio da operai bengalesi o nordafricani.
IL CANTIERE DI BABELE
Al cantiere navale spezzino, infatti, oltre ai 600 dipendenti diretti, lavorano circa duemila operai delle diverse ditte in appalto. “Nemmeno la Fincantieri è in grado di fornire cifre certe, ma almeno la metà di questi sono migranti di sicuro”, ci assicura Roberto Vignali, Rsu della Fiom, colui che per primo ha avuto l’idea di una scuola d’italiano. Gli è venuta proprio mentre faceva sindacato a bordo, dividendosi tra il suo lavoro di elettricista e quello di responsabile per la sicurezza. “Con molti colleghi è difficile comunicare, perché parlano male la nostra lingua – continua –. La presenza di così tanti lavoratori migranti qui a Muggiano, a dire il vero, è una realtà relativamente nuova, perché noi facciamo cantieristica militare. E se in quella civile succede da molto più tempo, da noi il fenomeno è iniziato solo due o tre anni fa”.
"I migranti sono una parte importante nel nostro mondo"
Per capire “chi avevamo di fianco” e “iniziare questa nuova storia”, quindi, c’era bisogno di “strumenti nuovi di zecca”. “Allora abbiamo pensato a una scuola di italiano – spiega Marzio Artiaco, un altro Rsu, sempre della Fiom –. Crediamo che sia un buon modo per coinvolgere dei colleghi che sono, e che stanno diventando sempre più, una parte importante nel nostro mondo”.
IN CLASSE DOPO LA SIRENA
Il corso di italiano della Fiom spezzina per operai migranti è quindi partito in forma sperimentale all’inizio del 2019. È stata formata una prima classe di 15 studenti, tutti bangladesi tranne tre nordafricani. E tutti dipendenti di ditte in appalto o subappalto alla Fincantieri. Per iniziare, il sindacato ha chiesto aiuto all’associazione culturale “La Falena”, che gestisce otto centri di accoglienza straordinaria per richiedenti asilo nel territorio di La Spezia. “Con la Cgil e la Fiom abbiamo un rapporto di collaborazione continua – racconta la presidentessa Elisabetta Bonfico –. Loro aiutano i nostri ospiti sulle questioni lavorative e ci danno una mano, giorno dopo giorno, a sbrigare le pratiche burocratiche agli sportelli. Noi, che invece abbiamo più esperienza nel rapporto diretto con i migranti e con le scuole, li abbiamo aiutati a risolvere le questioni più prettamente pratiche”. Ci si è quindi rivolti ai docenti del Centro provinciale per l’istruzione degli adulti (Cpia) di La Spezia. “Ne abbiamo parlato con loro – racconta ancora Marzio Artiaco – e loro si sono resi subito disponibili, adattando anche l’offerta formativa dell’istituto ai turni dei lavoratori in cantiere”.
"A volte si presentavano con la tuta da lavoro ancora addosso”
“È stato prolungato l’orario del Cpia fin verso le 9 di sera – ci conferma Manuela Bellucci, una delle docenti –. Bisognava valutare le esigenze di queste persone e la loro disponibilità. Per chi lavora non è sempre facile impegnarsi in un percorso del genere, e per tutti è stato anche un bel sacrificio. Dopo ore e ore di un’attività così sfiancante, appena suonata la sirena, saltavano sul primo autobus e venivano direttamente qui in classe, spesso senza nemmeno avere il tempo per farsi una doccia. A volte si presentavano con la tuta da lavoro ancora addosso”.
In classe al Cpia di La Spezia (foto Fiom)
Dopo solo sei mesi, però, i primi risultati si cominciano già a vedere. “Come succede in ogni ogni gruppo – continua la professoressa – c’è chi si è impegnato di più e chi meno, chi ha avuto un’ottima riuscita, chi un po’ meno. Ma tutti hanno capito l’importanza di questa nuova esperienza. Le lezioni, infatti, ci hanno permesso di affrontare temi di attualità, e di parlare pure di quello che succede all’interno del cantiere. Alla fine erano tutti soddisfatti. Abbiamo fatto un esame finale e i risultati sono stati positivi”. In effetti, oggi, anche in Fincantieri le cose sembrano andare molto meglio. “Direi che come prima sperimentazione possiamo considerarla un successo – dice ancora con soddisfazione Roberto Vignali –. Con pochi mesi non si fanno miracoli, ma abbiamo già visto un cambiamento d’approccio. Prima questi lavoratori erano un po’ diffidenti nei confronti del sindacato, mentre ora ci vengono a cercare in cantiere per farsi leggere la busta paga o per farsi spiegare questioni legate alla casa o al rinnovo del permesso di soggiorno. Si fanno dare una mano, insomma”.
"Prima erano un po’ diffidenti, ora ci vengono a cercare in cantiere”
“Noi cerchiamo di accompagnarli in un percorso che non serva soltanto per il lavoro – continua la professoressa Bellucci –, ma anche perché si integrino con tutti gli altri cittadini. Per i migranti il rischio è sempre quello di rinchiudersi in un ghetto linguistico. E, data l’aria che tira, non è il caso”. Parlare la stessa lingua, inoltre, è molto importante anche per la sicurezza di questi lavoratori e dei loro colleghi. “Il grido è internazionale – dice Marzio Artiaco –, ma in un posto di lavoro potenzialmente pericoloso come un cantiere navale comunicare con velocità e chiarezza su procedure e attività può davvero salvarti la vita”.
LA LINGUA DEGLI ALTRI
Quella dell’integrazione linguistica insomma, vista da un punto di osservazione privilegiato com'è la scuola di italiano della Fiom di La Spezia, sembra davvero una questione essenziale nel processo d’inclusione dei lavoratori migranti. A quanto pare, però, non è considerata poi così determinante da chi ci governa. Basti pensare che l’indagine istituzionale più recente sul tema della lingua degli immigrati in Italia risale al luglio 2014, e si rifà a una serie di sondaggi condotti addirittura durante il biennio 2011-2012. S’intitola “Diversità linguistiche tra cittadini stranieri”, ed è frutto di una convenzione tra Istat e ministero dell’Interno, nell’ambito degli interventi finanziati dal Fondo europeo per l’integrazione dei cittadini di paesi terzi.
Il 90% dei migranti parla esclusivamente italiano sul luogo di lavoro
Nonostante sia piuttosto datato, però, questo testo qualcosa ce lo rivela comunque. Innanzitutto che solo 17 stranieri adulti su 100 avevano seguito corsi di italiano, anche se oltre il 60% dichiarava di avere almeno qualche difficoltà nel leggere e nello scrivere. Il 37,5% dei cittadini stranieri, poi, si trovava a disagio di fronte a un telegiornale in lingua italiana, il 39% nell’interagire al telefono o negli uffici pubblici. Il problema riguardava soprattutto i più anziani. L’incidenza delle persone in difficoltà con la lingua aumentava infatti al crescere dell’età: la quota maggiore si osservava tra gli over 35 (69,9%), riducendosi notevolmente tra i giovani di 16-25 anni (48,5%) e tra bambini e ragazzi con meno di 15 anni (31,2%). Nel processo di integrazione linguistica, però, il lavoro appare comunque decisivo. Se infatti l’italiano era parlato in famiglia solo dal 38,5%, sul luogo di lavoro con i colleghi si superava la soglia del 90% dei casi, e questo a prescindere dal ceppo linguistico o dalla nazionalità di provenienza.
A SCUOLA DA ADULTI
Forse proprio per dare una risposta a dati poco incoraggianti, la formazione linguistica degli stranieri in Italia è stata “istituzionalizzata” con il decreto del 4 giugno 2010, che ha inserito la conoscenza della lingua, almeno di livello A2, tra i requisiti necessari per l’ottenimento della carta di soggiorno di lungo periodo. Requisito che è stato poi confermato un anno dopo dal regolamento attuativo dell’Accordo di integrazione. A partire dal 1° settembre 2015, poi, è stato portato a termine il processo di riforma complessiva del sistema per l’istruzione degli adulti, attraverso l'istituzione dei Cpia. Oggi sono oltre 128 su tutto il territorio nazionale e nel 2018 hanno accolto oltre 108 mila studenti, moltissimi dei quali stranieri. Per il ministero dell’Istruzione, infatti, i Cpia svolgono “un ruolo fondamentale per accogliere gli adulti immigrati e diffondere la conoscenza della lingua italiana”. Le difficoltà che affrontano i centri, però, sono spesso identiche a quelle che si registrano nelle scuole secondarie e primarie: carenza di organico, poche sedi e orari che spesso non coincidono con i ritmi di vita e di lavoro delle persone a cui sono rivolti. Intorno ai centri provinciali è così fiorita una costellazione di scuole di italiano nel mondo del volontariato. Resta difficile fornire cifre complessive sulla diffusione di questo fenomeno, se non nel Lazio, dove c’è un efficiente coordinamento gestito dalla rete Scuole Migranti. Qui le associazioni coinvolte sono ben 91, le sedi 140 e gli iscritti nell’ultimo anno scolastico 12 mila.
"La scuole gestite dai volontari sono complementari al sistema dei Cpia”
“Il terzo settore offre una formazione di prossimità e di comunità – spiega Paola Piva, presidentessa di Scuole Migranti –. Non siamo certo sostitutivi, ma complementari al sistema dei Cpia. Loro possono insegnare italiano solo ai migranti in regola, mentre noi non chiediamo certo il permesso di soggiorno ai nostri alunni. Accogliamo tutti, anche quelli che non vogliono emergere perché sperano che Salvini non si accorga di loro”.
PER CHI SUONA LA CAMPANELLA
Il decreto sicurezza targato Lega rischia però di mettere in crisi questo “sistema misto” di integrazione linguistica. Il mancato rinnovo dei permessi di soggiorno per motivi umanitari, di fatto, sta estromettendo molti migranti dai corsi forniti dai Cpia. Anche per questo da molti istituti stanno già arrivando dati allarmanti su una significativa emorragia di studenti stranieri. Ormai i permessi si contano col contagocce, e in molti abbandonano i corsi per cercare un contratto di lavoro, l’unica strada al momento percorribile per avere qualche possibilità di restare in Italia. Non va meglio con i corsi regionali di formazione professionale. Secondo l’Ottavo rapporto annuale del ministero del Lavoro sugli stranieri occupati in Italia, “solo una porzione minoritaria della popolazione occupata o inoccupata” li segue. I lavoratori stranieri tra i 15 e i 64 anni a partecipare sono il 6,4% tra i comunitari e il 5,8% tra gli extracomunitari. Nel caso degli inattivi in età da lavoro si supera di poco il 2%. La scuola della Fiom di La Spezia, però, pare andare in controtendenza. E non solo perché tutti gli studenti un lavoro e un permesso di soggiorno già ce l’hanno.
In classe al Cpia di La Spezia (foto Fiom)
“Stiamo programmando i corsi per il prossimo anno – spiega ancora Roberto Vignali –. Gli alunni che abbiamo avuto quest’anno stanno coinvolgendo altri colleghi stranieri. Conoscere l’italiano è fondamentale, e loro evidentemente se ne sono resi conto. Vogliono tutti rimanere in Italia, vedono il loro futuro qui e hanno voglia di integrarsi ancora di più, sul posto di lavoro come nella comunità cittadina”.
UN “SINDACATO DI BORDO”
Ma il corso di italiano sembra aver avuto effetti positivi pure sul sindacato. “Serve anche a noi – conferma Mattia Tivegna, segretario provinciale della Fiom La Spezia – per organizzare meglio questi lavoratori. In cantiere c'è una bella fetta di colleghi immigrati e dobbiamo farli diventare parte del tutto, dobbiamo riuscire a combattere le loro battaglie insieme alle nostre”. “Avvicinare questi lavoratori è diventata un'esigenza imprescindibile – continua –, perché sono una forza lavoro enorme, proiettata qui e messa a svolgere i lavori più duri”. Superare lo scoglio della lingua attraverso la formazione, poi, permette al sindacato di “costruire un percorso che va anche oltre la formazione”. Un riconoscimento c'è stato, “perché questi lavoratori il Primo maggio scorso erano in corteo con noi”. Insomma, “hanno cominciato a vederci come un punto di riferimento, a partecipare attivamente alla vita del sindacato”.
"Facciamo tutti parte della stessa trama, la lingua ci aiuta a conoscerci meglio e a lottare insieme”
Quello della scuola di italiano, tra l'altro, per Tivegna è anche un modo per tornare “a mettere i piedi a mollo”, per fare sindacato di strada, anzi di bordo. “Dobbiamo essere pratici, coinvolgere le persone che vivono situazioni di difficoltà e di disagio”. “Vogliamo estendere il corso anche alle aziende del territorio, che magari hanno poco indotto o che producono altro. L'obiettivo è arrivare a 50 adesioni per organizzare due classi – conclude –. Perché le esigenze dei lavoratori, siano italiani o migranti, sono sempre le stesse. Facciamo tutti parte della stessa trama, e una lingua comune può aiutare a capirci, a conoscerci meglio e a lottare insieme per i nostri diritti”.