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La mattina del 28 maggio 1974 la voce di Franco Castrezzati viene rotta improvvisamente dall’esplosione di una bomba che causa la morte di otto persone e un centinaio di feriti. Il tempo è sospeso in un silenzio irreale che in realtà dura poco, lacerato dal lamento dei feriti, dalle grida di orrore dei sopravvissuti, dalle sirene delle ambulanze. Dopo i primi drammatici istanti di panico e smarrimento, il responsabile organizzativo della Camera del lavoro di Brescia invita i manifestanti ad avvicinarsi al palco. Gli operai creano cordoni tra la folla per agevolare i soccorsi e coprono con le bandiere i corpi straziati delle vittime.
Dopo questi primi concitati momenti sopraggiunge la Celere. In un attimo gli agenti caricano i presenti. Il servizio d’ordine del sindacato stringe le fila e riesce a evitare che gli eventi degenerino, costringendo la Celere a ritirarsi dalla piazza. Intanto i dirigenti sindacali e di partito si riuniscono nell’ufficio del sindaco della città, Bruno Boni, per decidere come fronteggiare la situazione e prendere le prime decisioni. Alla prima riunione operativa nell’ufficio del sindaco partecipano solo alcuni rappresentanti della Camera del lavoro di Brescia, perché il gruppo più consistente è rimasto in piazza a gestire i soccorsi. In quella sede viene presa una delle decisioni più importanti di quei giorni: occupare le fabbriche.
Durante la successiva assemblea si discute del significato politico della strage e si decide di prorogare l’occupazione delle fabbriche per tutto il tempo ritenuto necessario. La Camera del lavoro diviene da quel momento la sede operativa da cui viene coordinata la risposta operaia alla strage, la gestione della piazza e dell’ordine pubblico fino al giorno dei funerali delle vittime. La risposta operaia e la mobilitazione popolare che segue, con l’occupazione delle fabbriche e il presidio democratico della città, costituiscono una straordinaria dimostrazione di democrazia e di civiltà con cui la città di Brescia risponde alla strage.
Il 29 maggio è forse il giorno più impegnativo per il sindacato e per i lavoratori. La massiccia adesione allo sciopero, alle assemblee, la presenza dei Consigli di fabbrica in piazza spingono il sindacato a decidere di organizzare un presidio permanente. Questa decisione nasce dalla necessità di incanalare la risposta spontanea dei lavoratori: l’occupazione e il presidio della piazza dimostrano, infatti, la responsabile e unitaria risposta della classe operaia.
L’iniziativa dei sindacati risponde anche al bisogno di prendere in mano la situazione e di rendere meno confuso e disordinato il pellegrinaggio di cittadini e delegazioni che stavano invadendo la città. La gestione dell’afflusso in piazza delle migliaia di persone che si vi si recano per rendere omaggio alle vittime impone rigide modalità organizzative. Il servizio d’ordine del sindacato costruisce quindi un sistema di controllo inflessibile. Vengono controllati i cittadini e le delegazioni che entrano e escono da piazza della Loggia; in varie parti della città, vengono collocati picchetti operai per controllare l’afflusso delle delegazioni della provincia e di altre città. Sono dei veri e propri posti di blocco che di fatto sostituiscono le forze dell’ordine.
Nel corso della riunione plenaria che si svolge presso la Camera del lavoro nel pomeriggio del 29 maggio, ci si confronta esclusivamente sulla scelta dei nomi che avrebbero preso la parola durante i funerali di Stato. La Federazione Unitaria richiede compattamente e con forza l’intervento di Luciano Lama come oratore. La presenza del Presidente della Repubblica e la dichiarazione quindi dei funerali di Stato, impongono la necessità di programmare gli interventi in modo da tenere conto del protocollo del cerimoniale che prevede il solo intervento delle più alte cariche dello Stato. Nelle successive riunioni viene adottata una soluzione di mediazione che, rompendo il protocollo, accoglie le richieste sindacali e la presenza di Luciano Lama sul palco degli oratori.
Un’altra decisione importante presa durante la riunione del 29 maggio è quella di affidare il servizio d’ordine, la gestione della piazza e dell’ordine pubblico durante i funerali di Stato al movimento sindacale. La decisione nasce dalla preoccupazione che in quel giorno dalla provincia e da altre città sarebbero arrivate molte delegazioni e che l’intervento della polizia avrebbe potuto, data l’altissima tensione emotiva e politica, innescare disordini. Le organizzazioni sindacali hanno, del resto, già dimostrato di saper gestire l’ordine e la sicurezza in città.
Il Ministro dell’Interno Taviani concede permessi speciali per i lavoratori e il Prefetto accetta che i funerali vengano controllati e gestiti dal servizio d’ordine organizzato dal sindacato. Il compromesso raggiunto prevede che la polizia rimanga nelle caserme, pronta a intervenire, e che venga schierato solo qualche gruppo di carabinieri in difesa del Presidente della Repubblica, Leone.
Dopo la celebrazione della messa, Franco Castrezzati riprende il suo discorso interrotto dall’esplosione della bomba il 28 maggio. Il discorso di Luciano Lama, come del resto la sua stessa presenza in una città di fatto controllata dai lavoratori, è il frutto di un confronto serrato tra la Federazione Unitaria e i rappresentanti delle istituzioni. Il segretario generale della Cgil è decisamente contenuto per sua scelta e non per l’imposizione del Presidente della Repubblica, che comunque pretende di leggere il testo del suo intervento prima che venga pronunciato.
Le ragioni che inducono Lama alla costruzione di un discorso di questo tipo sono diverse. In un contesto in cui il servizio d’ordine dei lavoratori si è di fatto sostituito alle forze di polizia nella gestione dell’ordine pubblico, una denuncia troppo incisiva nei confronti del governo e dei suoi rappresentanti avrebbe generato sicuramente problemi non solo per i rappresentanti delle istituzioni, ma anche per gli stessi lavoratori. Il tema dell’ordine pubblico è quindi uno degli elementi centrali, ma non è l’unico. Sembra, infatti, esserci una frattura, o perlomeno una differenziazione abbastanza marcata, tra la dimensione locale e quella nazionale. Lama condanna fermamente la violenza fascista e si dice preoccupato per la condizione economica che di fatto ha creato il milieu in cui i gruppi neofascisti hanno potuto crescere e rafforzarsi. Il suo discorso, che pure ottiene molti applausi, è improntato all’unità ma appare in parte svuotato di quella necessaria dimensione critica nei confronti dell’inerzia e della troppa tolleranza manifestata dalle istituzioni nei confronti dei gruppi neofascisti.
La piazza contesta principalmente i rappresentanti istituzionali presenti sul palco e questo rappresenta un momento di fortissima delegittimazione del Presidente della Repubblica, che si concretizza nei fischi a Giovanni Leone. Ma sono gli operai a garantire la difesa delle massime istituzioni, quegli stessi operai che inscenano la dura manifestazione di protesta nei confronti di quelle stesse alte cariche dello Stato.
La gestione della piazza e l’organizzazione svolta dalla Federazione Unitaria Cgil-Cisl-Uil e dalla Camera del lavoro di Brescia rappresentano una importante testimonianza di tenuta democratica che il movimento operaio e la Federazione sindacale riescono a dare alla città e all’intero paese. In un momento in cui molti vedono nelle numerose inadempienze istituzionali una causa di scollamento tra istituzioni e società, il movimento operaio riesce a realizzare un profondo rinnovamento dei rapporti tra le istituzioni e i cittadini. L’aspetto forse maggiormente significativo di quanto avviene in quei giorni riguarda il protagonismo di soggetti fino ad allora rimasti estranei a responsabilità di gestione politico-istituzionale e che decidono di assumersi direttamente l’onere di organizzare e gestire la risposta di massa alla strage del 28 maggio. Le istanze antifasciste espresse in quei giorni si saldano con la rivendicazione di un radicale mutamento dei rapporti di forza in fabbrica e in tutti i luoghi di lavoro.
L’imponente mobilitazione successiva alla strage di Piazza della Loggia porta Brescia a diventare un punto di riferimento politico della lotta antifascista sul piano nazionale. A Brescia, infatti, il sindacato si fa Stato, diventa gestore in prima persona dell’ordine pubblico e viene percepito dalla città come unico soggetto legittimato a questo compito. La strage, come quelle che l’hanno preceduta, viene vissuta, infatti, come un attacco alle conquiste del movimento operaio, e lo Stato non viene ritenuto in grado di svolgere un’azione efficace su questo terreno, perché, come dirà Lama qualche anno più tardi, “minato al suo interno da connivenze e contiguità con i protagonisti della strategia della tensione”. La piazza, violentata e deturpata dall’orrore della strage, viene così simbolicamente e politicamente sottratta alla violenza per essere restituita alla sua natura originale di luogo di incontro e costruzione di spazi democratici.
Di fronte all’irrompere del fenomeno terroristico il sindacato e la rappresentanza partitica sono “costretti” ad affrontare in maniera inedita il tema dell’autonomia organizzativa e decisionale ben oltre la tradizionale divisione di compiti e di funzioni in materia di politica economica e di concezione ideologica della trasformazione della società capitalistica. L’autonomia, alla prova della violenza militarizzata e del terrorismo, diviene un terreno concreto e impervio sul quale e dal quale nascerà un rafforzamento per la Cgil e per il movimento sindacale nel suo insieme delle ragioni stesse della propria cultura centrata storicamente sul rifiuto della violenza e sull’affermazione dell’alterità fra le forme dell’organizzazione, della lotta sindacale e le forme dell’azione eversiva e violenta.