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Uber: verso una condotta più sociale
Le Monde, 19 marzo 2021
Si stanno moltiplicando in Europa azioni legali e normative nuove contro le piattaforme digitali per spingerle a migliorare le condizioni dei loro collaboratori. Il gruppo americano ha riconosciuto agli autisti nel Regno Unito lo status di “lavoratori dipendente”.
Da dieci anni, la “gig economy”, oppure la “task-based economy”, quella dei lavoretti occasionali offerti dalle piattaforme collaborative digitali, hanno prosperato senza troppo preoccuparsi del diritto sociale. Approfittando del vuoto giuridico e dell’esplosione della domanda di servizi nuovi, gli operatori dei veicoli per il trasporto con autista e le aziende per le consegne a domicilio hanno assunto un’importanza crescente, imponendo condizioni di lavoro precarie ai loro collaboratori.
Anche se questi lavori offrono opportunità alle persone che hanno difficoltà a entrare nel mercato del lavoro tradizionale o che hanno bisogno di un reddito supplementare, non garantiscono alcuna protezione sociale minima a coloro che svolgono questo lavoro. La flessibilità e la libertà che ricercano non devono essere incompatibili con il diritto a lavorare con dignità.
Per fortuna, la situazione in Europa si sta normalizzando, anche se i progressi sono lenti. Un po' ovunque, le azioni legali spingono le piattaforme digitali a fare concessioni. Martedì, 16 marzo, Uber ha finalmente riconosciuto agli autisti nel Regno Unito lo status di “lavoratore dipendente”. Il gruppo americano è stato sotto le pressioni della Corte suprema britannica, che, il 19 febbraio, stabiliva che gli autisti non avrebbero dovuto più essere considerati lavoratori autonomi e che avevano diritto ad alcune prestazioni sociali. Uber ne ha preso atto riconoscendo loro il salario minimo, ferie retribuite e l’accesso al fondo pensione.
Rappresentanza sindacale sotto esame
Questa decisione è tale da incoraggiare un movimento più vasto già al lavoro. In questi ultimi mesi, sia in Spagna e sia in Italia, le sentenze dei tribunali hanno costretto le piattaforme digitali e rivedere lo status dei lavoratori autonomi. In Danimarca e in Svezia sono state firmate accordi collettivi di lavoro più favorevoli. In Francia, la Corte di cassazione ha deciso di riqualificare un autista Uber come lavoratore dipendente. Sono in corso numerose altre richieste in cui i lavoratori rivendicano gli stessi diritti. Il governo ha, nel frattempo, avviato una missione nell’intento di stabilire il dialogo sociale all’interno delle piattaforme digitali. Entro la fine di aprile sarà pubblicata un’ordinanza, con la quale gli autisti e i corrieri potranno beneficiare della rappresentanza sindacale.
Allo stesso tempo, si sta procedendo a creare l’“autorità nazionale delle relazioni sociali delle piattaforme per il lavoro” (ARPE) per avanzare proposte di regolamentazione del settore. La Commissione europea avvierà le consultazioni con le parti sociali per riflettere sul miglioramento della situazione di questi lavoratori.
È arrivato il momento di preoccuparsi di questo nuovo proletariato urbano, che, sotto una parvenza di modernità, ricorda pratiche sociali di un’altra epoca. Nell’arco temporale di dieci anni, il numero delle piattaforme collaborative si sono quintuplicate, con la creazione di numerosi posti di lavoro. Ognuno di noi, con un semplice gesto sul proprio smartphone, ha accesso a numerosi servizi che facilitano la nostra vita quotidiana. Coloro che ce lo consentono meritano un minimo di considerazione.
Per le piattaforme si tratta di una sfida importante, dato che la maggior parte non ci guadagna sempre. Uber ha perso 6.8 miliardi di dollari nel 2020 (circa 5.7 miliardi di euro), un po' meno rispetto agli 8.5 miliardi dell’anno precedente. Per questo settore, la ricerca di un modello economico non può essere contraria al miglioramento delle condizioni di lavoro, i conducenti e i fattorini non possono essere considerati come una variabile di aggiustamento.
Per leggere l'articolo originale: Uber : vers une conduite plus sociale
Uber pagherà agli autisti nel Regno Unito il salario minimo, le ferie e i contributi
The Guardian, 17 marzo 2021
La decisione fa seguito alla sentenza della Corte suprema secondo cui gli autisti sono lavoratori, ma per il sindacato i cambiamenti sono ancora pochi
Dopo la decisione storica della Corte suprema, Uber garantirà a 70.000 autisti nel Regno Unito il salario minimo orario, le ferie retribuite e i contributi. L'applicazione del ride-hailing ha riferito che gli autisti inizieranno a beneficiare dei cambiamenti a partire da mercoledì, e manterranno il diritto di scegliere quando lavorare, dal momento che ha accettato di riconoscerli come lavoratori dipendenti conformemente alla sentenza. Uber, come molte aziende per le consegne tramite corriere, ha sostenuto che gli autisti sono lavoratori autonomi “partners” che non godono dei diritti fondamentali come gli altri lavoratori, tra cui il salario orario minimo legale per legge e i contributi pensionistici. Lo scorso mese, la Corte suprema del Regno Unito ha respinto il ricorso dell'azienda Uber contro la decisione importante del tribunale del lavoro, secondo cui gli autisti dovrebbero essere classificati come lavoratori dipendenti.
L'azienda aveva precedentemente sostenuto che la sentenza si applicava soltanto ad un numero esiguo di lavoratori coinvolti nella causa e che non era obbligata ad applicare la sentenza agli altri autisti. Martedì notte (16 marzo), l'azienda ha ribaltato completamente la situazione, affermando che gli autisti riceveranno ogni quindici giorni almeno il salario minimo legale, saranno riconosciute le spese e le ferie retribuite al 12,07% del guadagno. Inoltre, saranno iscritti automaticamente al piano pensionistico aziendale per i contributi versati dal datore di lavoro e dal lavoratore. Gli autisti continueranno ad avere accesso all'assicurazione gratuita in caso di malattia o di infortunio, nonché al sostegno alla genitorialità in essere per tutti gli autisti dal 2018.
Il direttore generale Uber per l'Europa settentrionale e orientale, Jamie Heywood, ha detto: “Questo è un giorno importante per gli autisti nel Regno Unito”. Heywood ha ammesso che la decisione probabilmente farà pressione sulle altre aziende della gig economy affinché cambino strada ed ha aggiunto: “Uber fa parte di un settore più grande del noleggio privato, per questo speriamo che tutti gli altri operatori si uniranno a noi per migliorare la qualità del lavoro di questi lavoratori importanti che sono una parte essenziale della nostra vita quotidiana”. I sindacati e gli autisti hanno accolto con favore la decisione. Il funzionario nazionale del sindacato Gmb, Mick Rix, ha affermato: “Le altre aziende della gig economy dovrebbero prendere atto del fatto che il falso lavoro autonomo è finito”. “Abbiamo dovuto trascinare Uber in tribunale perché facesse la cosa giusta, ma infine hanno accettato di seguire la sentenza dei tribunali e trattare come lavoratori dipendenti gli autisti”.
“E' una vergogna che il sindacato Gmb abbia dovuto vincere quattro cause in tribunale perché fossero accolte le sue richieste, ma alla fine ce l'abbiamo fatta ed è una grande vittoria per i nostri iscritti”. La segretaria generale del Congresso dei Sindacati, Frances O’Grady, ha detto che la decisione “sembra essere un grande passo verso la giusta direzione”. “Ora l'azienda deve riconoscere i sindacati. Il Tuc è pronto ad ospitare l'avvio delle trattative tra Uber e i sindacati dei lavoratori del noleggio privato”.
Tuttavia, secondo l'applicazione Drivers & Couriers diretta da James Farrar e Yaseen Aslam, che sono i ricorrenti principali nel processo di successo contro Uber, sono stati fatti pochi cambiamenti per gli autisti. “Nell'accogliere favorevolmente la decisione dell'azienda Uber di impegnarsi finalmente a pagare il salario minimo, le ferie e i contributi, osserviamo che l'offerta è stata presentata veramente in ritardo e con poco impegno”.
Uber ha detto che il salario minimo e le ferie retribuite matureranno dal momento in cui la corsa viene accettata fino a quando il passeggero giunge a destinazione, e non per il tempo in cui l'autista resta disponibile nell'applicazione, che è l'orario stabilito dalla Corte suprema. Questo significa che gli autisti Uber potrebbero perdere fino al 50% dei loro potenziali ricavi.
Per leggere l'articolo originale: Uber to pay UK drivers minimum wage, holiday pay and pension
Israele si vaccina, la Palestina sprofonda nell’epidemia
Le Monde, 16 marzo 2021
I lavoratori si mettono in fila davanti ad un edificio di cemento. Una squadra della Croce Rossa israeliana prepara siringhe all’interno dell’edificio. È pronta a vaccinare i lavoratori palestinesi che pazientano da due ore, dal mattino di mercoledì’ 10 marzo, nella località di Mishor Adumin, principale zona industriale delle colonie in Cisgiordania. Ordini, contrordini dei soldati: per facilitare i contatti, l’esercito ha inviato reclute che parlano l’arabo. A partire dall’8 marzo e nelle prossime settimane, 80.000 palestinesi occupati legalmente in Israele saranno vaccinati e 35.000 nelle colonie.
Ci sono voluti tre mesi perché la campagna vaccinale israeliana più veloce al mondo interessasse questi lavoratori, potenzialmente contagiosi, che si spostano tra Israele e la Palestina. È un momento di forte contrasto, come una fotografia dimenticata nel processo di sviluppo del Covid. Mentre Israele riapre bar e locali notturni ai coloni che sono stati vaccinati (il 54% della sua popolazione ha ricevuto la prima dose), la Cisgiordania si rinchiude in un nuovo confinamento.
L’epidemia è fuori controllo
“Ho una possibilità”. Nella zona industriale di Mishor Adumin, il datore di lavoro di Omar Jalayta ha detto chiaramente che se il lavoratore non si farà vaccinare perderà il posto. Omar è un’autista di 46 anni, lavora per una fabbrica israeliana di alluminio, e non se lo fa dire due volte. “Avevo paura di tutto attorno a me, Avevo paura di vedere la mia famiglia”, afferma. Jalayta è stato di recente messo in congedo senza retribuzione per due settimane perché suo fratello era contagioso. Si pensa che l’Autorità palestinese abbia informato i servizi sanitari israeliani.
In un capannone vicino, Mohammed Tmaizi, 23 anni, guarda con un sorriso la coda di coloro che riceveranno il vaccino. Preferirebbe non essere lì, ma se n’è fatto una ragione. Ora suo padre non potrà più rinchiuderlo al piano inferiore della casa di famiglia di Hebron. I suoi cugini non si rifiuteranno di vederlo perché lavora in un insediamento ebraico, dove prima che fosse somministrato il vaccino miracoloso, il virus circolava più velocemente che in Palestina.
Umm Aiman, di 63 anni, è una lavoratrice domestica nell’insediamento israeliano di Maale Adumin e dice di essere fortunata per avere l’opportunità di vaccinarsi. Il suo datore di lavoro l’ha accompagnata questa mattina nella zona industriale. Tre volontari dell’insediamento, liceali con unghie laccate e occhiali scuri, guidano Umm Aiman nel centro vaccinale. I suoi figli aspettano i vaccini che l’Autorità palestinese distribuirà.
La squadra della Croce Rossa di Davide è ben organizzata. Dall’inizio dell’epidemia, la squadra ha girato, come richiesto da Israele, tra le realtà della società palestinese. Da dicembre, hanno vaccinato a turno, indistintamente, Gerusalemme ovest ed est, la parte araba della Città Santa annessa dopo la guerra del 1967.
A febbraio, si sono stabiliti per diversi giorni nel checkpoint di Qalandia per vaccinare i residenti e le loro famiglie di un quartiere arabo degradato, tagliato fuori dal centro della città dal muro di separazione. Gli esperti sanitari hanno raccomandato lo stato israeliano di vaccinare i lavoratori. “Sarà possibile arrivare all’immunità di gregge quando saranno vaccinati”, afferma Ronni Gamzu, direttore dell’ospedale Sourasky di Tel Aviv, che è stato consigliere principale del governo nella lotta contro l’epidemia. “Sul piano epidemiologico saremo coperti, ma non sul piano etico, perché dobbiamo garantire che tutti i palestinesi siano vaccinati”.
È da dicembre che gli attivisti per i diritti umani ricordano che la quarta Convenzione di Ginevra obbliga Israele, in quanto potenza occupante, a vaccinare la popolazione dei territori. Lo stato ebraico ha risposto che l’Autorità palestinese, secondo gli Accordi di Oslo, è sovrana in materia di salute. L’Autorità palestinese non ha avanzato alcuna richiesta ufficiale di aiuto a Israele, non volendo dare il segnale di dipendere da Israele. Ma, secondo il canale televisivo israeliano KAN, sarebbe stata richiesto un aiuto, nel mese di febbraio, in una riunione tenuta tra alti funzionari sanitari israeliani e palestinesi a Ramallah, dove Israele avrebbe rifiutato.
L’Autorità palestinese, che non intende chiarire questo punto, evita la stampa e spera di non dover rilasciare commenti sul nuovo arrivo di vaccini inviati da Mohammed Dahlan, rivale mandato in esilio dal presidente palestinese Mahmud Abbas, che giovedì sera ha consegnato nella roccaforte di Hamas, la Striscia di Gaza, 40.000 dosi provenienti dagli Emirati Arabi. Questa seconda consegna di vaccini in un mese è una tortura per Abbas, perché lo mette di fronte alla sua impotenza. Sta aspettando dalla Cina l’arrivo di 100.000 dosi e la consegna dall’OMS di vaccini nel sistema Covax. Israele ha fornito all’Autorità palestinese soltanto 20.000 dosi, nonostante abbia una scorta di oltre 7.5 milioni di dosi Pfizer. L’Autorità palestinese sta cercando di tacere sullo scandalo di dosi fornite da Israele e dalla Russia, l’80% di 12.000 dosi, distribuiti al personale ospedaliero in Cisgiordania. Ma gli alti responsabili dell’Autorità palestinese sarebbero stati vaccinati, e 200 dosi sarebbero state inviate al Regno della Giordania. Gli attivisti della società civile sospettano che alcuni dirigenti abbiano fatto vaccinare anche i loro figli. La lista di coloro ai quali è stato inoculato il vaccino comprende circa 100 studenti, sui quali non sono stati forniti dettagli.
Il confinamento è stato rispettato poco
Questa polemica scoraggia Mussa Atary, direttore sanitario del principale ospedale di Ramallah. Il 20% del personale sanitario, 180 persone, è stato vaccinato. Atary, numerosi infermieri e l’unico pneumologo dell’ospedale non prendono vacanze da un anno. Le mascherine e i guanti scarseggiano ed il generatore dell’ospedale non garantisce sufficiente ossigeno. Martedì, l’ospedale aveva 80 pazienti in condizioni critiche, e non accetta i casi meno gravi, 22 altri pazienti sono stipati al Pronto Soccorso. Atary vorrebbe trasferirli nell’ospedale di Nablus o di Hebron, ma anche questi ospedali sono saturi. Il medico non incolpa subito Israele. Segnala che molti palestinesi non indossano le mascherine da mesi. Le misure intelligenti per il confinamento che scatta la sera e nei fine settimana, decise a gennaio, sono state rispettate poco. Quelli che hanno potuto, non hanno smesso di andare in Israele. Oggi, la polizia palestinese blocca le auto israeliane nei punti di ingresso di Ramallah, quando gli autisti delle auto hanno la possibilità in più rispetto a loro di essere vaccinati. Il centro della città di Ramallah è chiuso, le saracinesche dei negozi sono abbassate. Chi vuole magiare un panino di Shawarma in Palestina deve andare negli insediamenti dei coloni israeliani. A Mishor Adumin, la griglia per la carne vicino al supermercato Rami Levy gira continuamente.
Per leggere l'articolo originale: Israël se vaccine, la Palestine replonge dans l’épidémie
La nuova generazione di attivisti siriani mantiene viva la rivoluzione in Siria: “Non ci arrenderemo”
The Guardian, 15 marzo 2021
Nelle poche aree non riconquistate dalle forze di Assad, la popolazione si riunisce per ribadire le stesse richieste presentate dai manifestanti dieci anni fa
Sarah kasem aveva 12 anni quando i manifestanti della Primavera Araba iniziarono a riempire le strade e le piazze in Siria 10 anni fa. Ricorda nitidamente la speranza e l’eccitazione di quel tempo. Quel ricordo sembra così lontano dagli orrori che hanno fatto seguito. Gli anni dell’adolescenza di Kasem sono passati nella città sotto assedio di Homs, dove gli amici e i parenti sono scomparsi nelle prigioni del regime e la sua famiglia ha vissuto gran parte del tempo senza elettricità, alla ricerca di cibo e di medicinali. Nel frattempo, le forze aeree di Bashar Al Assad sganciavano barili bomba e munizioni a grappolo sul loro quartiere.
Quando la città di Homs cadde, la famiglia kasem si trovò a far fronte ad una scelta che altri milioni di persone avrebbero affrontato durante la guerra: restare e affrontare le truppe di Assad, che li avrebbero trattati come terroristi, oppure fuggire verso la provincia di Idlib, anch’essa instabile, ma almeno fuori dal controllo del regime.
La studentessa di ventuno anni dice: “Ho creduto di passare da un inferno all’altro”. “Ma quando siamo arrivati ho potuto concentrarmi nuovamente sullo studio, e come aiutare a ricostruire di nuovo la Siria. La mia generazione nutre ancora le stesse speranze di giustizia e di libertà. Non rinunceremo a quanto iniziato dalla generazione passata”. In dieci anni, con l’aiuto degli alleati russi e iraniani, Assad ha ripreso il controllo della maggior parte del Paese, e il sogno di una “Siria Libera” è confinato nella sacca nordoccidentale del paese composta dalla città di Idlib e dalla campagna circostante.
Nel 2019, un gruppo islamista con legami con Al Qaeda ha strappato il controllo dell’area ad altre fazioni opposte. Le incursioni aeree del regime e la possibilità di attacchi su vasta scala rimangono una minaccia costante.
C’è poco lavoro, e i costanti tagli agli aiuti ha reso la vita persino più dura per i 3 milioni di civili intrappolati tra le due forze. Ciononostante, ogni venerdì, gruppi di persone scendono nelle piazze delle città e dei villaggi per gridare slogan e sventolare striscioni a sostegno della rivoluzione siriana, ribadendo le stesse richieste di dieci anni fa. Lunedì, 15 marzo, ricorre l’anniversario di quando poche decine di manifestanti coraggiosi nel 2011 scesero nelle strade di Damasco per chiedere la libertà.
“Il prezzo che abbiamo pagato per aver partecipato alla rivoluzione non è stato piccolo. Abbiamo pagato un prezzo enorme e sopportato perdite enormi. Ma noi non siamo sole delle vittime: siamo i sopravvissuti”, afferma Hasna Issa, trentasei anni, attivista per i diritti umani precedentemente imprigionata dal regime e che ora lavora nell’ambito di programmi a sostegno dell’uguaglianza di genere e della leadership femminile per l’organizzazione della società civile, Kesh Malek, che opera nel nord ovest della Siria.
“Stiamo facendo crescere la nuova generazione diversamente, in un modo che nessuno riesce ad immaginare. Le mie due figlie gemelle hanno nove anni. Eserciteranno il diritto di voto nelle libere elezioni del futuro e sanno di potersi candidare”.
L’organizzazione Kesh Malek, sorta nei primi giorni della rivolta, gestisce laboratori, dove le donne e gli uomini giovani possono imparare a conoscere i principi sui quali si fonda la democrazia, i diritti umani e la resistenza non violenta, principi alla base della rivoluzione. Gli organizzatori vedono il programma anche come un importante barriera contro l’estremismo.
Mohamed Barakat, direttore del centro comunitario di Kesh Malek, nel villaggio di Killi, ha detto: “Non pensavo che avremmo combattuto ancora per i diritti fondamentali per molto tempo”. “Quando la rivoluzione iniziò, pensai che quanto era accaduto in altri paesi come la Tunisia sarebbe accaduto anche in Siria. Pensai che il regime sarebbe caduto per cedere alle richieste di libertà della popolazione. Invece, hanno sferrato azioni militari e bombardamenti, e così mi sono reso conto che avremmo lottato per molto tempo”. Ha aggiunto: “Dobbiamo mantenere vivo il sogno per la prossima generazione…i giovani sono così motivati. Lavorare con i giovani mi dà speranza e gioia”.
I giovani siriani hanno molte cicatrici, fisiche e mentali. Per gli adolescenti, e per coloro che hanno 20 anni, è difficile riconciliare i ricordi dell’infanzia in tempo di pace con il presente.
La fotografa Hiba Barakat, di ventitré anni, dice: “Ho perso molto durante la guerra. Mio padre, mio fratello, gli anni della giovinezza”. “Amo il mio lavoro come fotografa, ma è difficile guadagnare, e la situazione è instabile e insostenibile. Durante la campagna militare dello scorso anno a Idlib, ho avuto modo di documentare il bombardamento di una scuola, il giorno in cui il regime colpì cinque scuole in un solo giorno. “Devo fare qualcosa in questa situazione. Devo raccontare quanto accade. Ma la vita è insostenibile. Gli attivisti, i giornalisti, gli operatori sociali, tutti chiedono l’asilo”.
Dima Ghanoum, preside di una scuola situata a Daret Azza, racconta che tutti i suoi studenti vorrebbero lasciare la Siria senza pensarci due volte, se ne avessero la possibilità. “Prima della guerra gli adolescenti erano molto curiosi riguardo alla vita. Mia figlia mi chiedeva: “Andavi davvero al ristorante, ti sedevi e ordinavi del cibo? Avevi davvero l’elettricità a quel tempo? Appartengono alla prima generazione nata nella libertà, ma non capiscono che cosa significhi, o il prezzo che abbiamo pagato. Abbiamo vissuto in una società estremamente disuguale sotto il regime. Non riesco a descrivere bene come era insegnare in una tenda, dover a volte fermare la classe per abbracciare i tuoi studenti per impedire loro di sentire freddo. Ma non vorrò tornare sotto il controllo del regime. Viviamo in grandi difficoltà e paura…ma è meglio ora di allora.”
Mettere i pezzi nuovamente insieme in Siria resta, per noi, un sogno lontano. Secondo la ricerca realizzata da Save the Children, un adolescente sfollato su tre all’interno del paese vorrebbe partire, e l’86% degli adolescenti rifugiati intervistati in Giordania, in Libano, in Turchia e on Olanda raccontano di non voler ritornare nel paese che i loro genitori hanno lasciato.
Kasem racconta: “Alla nostra età stiamo affrontando cose diverse rispetto a quelle affrontate dagli attivisti della generazione passata”. “La nostra giovinezza è stata distrutta completamente. Ma abbiamo il compito e la capacità di andare avanti…I nostri sforzi volti a rendere la Siria un luogo migliore merita l’aiuto del mondo esterno. Senza la rivoluzione siriana, non sarei la persona che sono ora”.
Per leggere l'articolo originale: 'We won't give up’: new generation of activists keep Syria's revolution alive
I lavoratori tessili in Myanmar sono in prima linea nella lotta contro il colpo di stato: “Non possiamo accettarlo"
The New York Times, 13 Marzo 2021
Ma Moe Sandar Myint è la dirigente di uno dei più grandi sindacati dei lavoratori tessili e dell'abbigliamento in Myanmar. Fino a poco tempo fa, questa madre di 37 anni, con tre figli, ex operatrice di macchina da cucire passava le giornate a rappresentare i lavoratori nei loro reclami e ad aiutare gli iscritti della Federazione dei lavoratori tessili del Myanmar a sindacalizzare le loro fabbriche.
Ma la sua vita è cambiata il 1° febbraio, il giorno in cui il colpo di stato ha riportato i militari al potere nel paese dopo anni di quasi democrazia, quando dopo l’interruzione di Internet, i lavoratori si sono riversati negli uffici del sindacato. Si sono tenuti incontri informali per diversi giorni, sfociati in scioperi di piccole dimensioni nelle fabbriche, poi i lavoratori sono usciti all’esterno, riversandosi nelle strade, sostenendo molte delle manifestazioni di massa tenute in tutto il Myanmar nelle ultime settimane, dove i partecipanti rischiano sempre più di morire. Moe Sandar Myint, è stata in prima linea, indossando una mascherina e un elmetto bianco.
Ha organizzato oltre 20 marce, ora è una delle tante lavoratrici tessili diventate organizzatrici sindacali che sono state catapultate dall’anonimato all'avanguardia di un movimento politico in aumento. Molte sono donne. Per la maggior parte di loro l’esperienza organizzativa degli scioperi e delle reti locali, mentre costruivano sindacati nelle fabbriche di abbigliamento del paese, è stata determinante per prepararsi a questo nuovo ruolo.
Ha dato loro uno strumento in più, la capacità di attirare l'attenzione dei marchi di moda internazionali, particolarmente sensibili al controllo della catena di fornitura del settore tessile, e, quindi, del mondo intero. Il mese scorso, quando gli agenti di polizia hanno emesso mandati d'arresto per i dirigenti sindacali di industrie e settori di lavoro, i cartelli dei lavoratori fuori dalle fabbriche imploravano marchi come H&M e Zara di aiutarli.
Il settore dell'abbigliamento è cresciuto rapidamente nel paese da quando sono state abolite le sanzioni internazionali nel 2016. Secondo la Camera di commercio europea in Myanmar, il settore tessile ha rappresentato il 31% delle esportazioni nel 2018, per un valore di 4.59 miliardi di dollari. Sebbene la maggior parte delle spedizioni sia destinata ai paesi asiatici, come la Cina o la Corea del Sud, un numero crescente di paesi occidentali è diventato un mercato importante, poiché aziende come H&M, Inditex (che possiede Zara), Primark e Bestseller hanno iniziato ad approvvigionarsi dalle fabbriche in Myanmar.
Moe Sandar Myint ha detto, da un rifugio sicuro, dove si è trasferita dopo l’irruzione della polizia nella sua casa il 6 febbraio e da dove è riuscita ad organizzare le proteste di giorno e rifugiarsi di notte, rinunciando a vedere la sua famiglia: "Ogni fabbrica si trova ora in una situazione diversa, ma tutte hanno bisogno dei marchi internazionali per fare un passo avanti e dire ai proprietari delle fabbriche di rispettare inequivocabilmente il diritto dei lavoratori a riunirsi”. Ha osservato che molti lavoratori tessili sono minacciati e per questo spaventati per il loro lavoro e la loro vita.
Questa settimana, il marchio H&M è stato il primo grande rivenditore ad aver confermato che fermerà gli ordini ai 45 fornitori in Myanmar.
Serkan Tanka, country manager di H&M in Myanmar, ha scritto in una e-mail: "Anche se non prenderemo alcuna azione nell’immediato riguardo alla nostra presenza a lungo termine nel paese, in questo momento non faremo nuovi ordini ai nostri fornitori". Ha citato "difficoltà pratiche e una situazione imprevedibile che limita la nostra capacità di operare nel paese, comprese le sfide legate alla produzione e alle infrastrutture, alle importazioni di materie prime e al trasporto di prodotti finiti".
Ha aggiunto che H&M è "estremamente preoccupata per la situazione nel Paese". La decisione dell'azienda è giunta dopo la dichiarazione del mese scorso di H&M, Inditex, Bestseller e Primark, nella quale hanno sottolineato di prestare attenzione agli eventi e affermato il loro impegno a rispettare gli standard democratici. I marchi ACT, o Action, Collaboration, Transformation, sono i firmatari di un accordo mediato con il sindacato globale IndustriALL. Ha lo scopo di garantire che i lavoratori che utilizzano la contrattazione collettiva e la libertà di associazione possano negoziare salari dignitosi.
Questa settimana, i dipendenti pubblici, gli operatori sanitari e bancari, nonché gli insegnanti insieme a Moe Sandar Myint e ad altri dirigenti sindacali hanno continuato a chiedere uno sciopero esteso a livello nazionale per paralizzare l'economia del Myanmar e inviare un segnale ai generali che controllano il paese con le armi.
Tin Tin Wei, 26 anni, produce giacche da uomo per il marchio italiano Ovs e altri marchi. Operaia tessile da cinque anni e dirigente sindacale da quattro, ha organizzato uno sciopero nella sua fabbrica dopo il colpo di stato, nel quale i lavoratori hanno indossato camice bianche e nastri rossi e cantato canzoni e inni storici famosi (una iniziativa consentita dalla direzione della fabbrica). Ha lavorato solo sei giorni a febbraio, ha passato la maggior parte del tempo inviando lettere alle ambasciate, pensando alle campagne sui social media e preparando gli scioperi.
Tin Tin Wei ha detto: "Se prima si violavano i diritti nelle fabbriche, non c’è dubbio che sotto un regime militare le cose andranno ancora peggio per i lavoratori tessili con un costo del lavoro basso”. "Questa è una lotta che devo affrontare. Non possiamo accettarlo, anche se significa rischiare di essere arrestati o di morire. Lo faccio per me, la mia famiglia, i miei colleghi del sindacato e per tutto il popolo del Myanmar.
Un recente studio suggerisce che il numero di persone che riceve meno di 1.90 dollari al giorno in Myanmar si è triplicato, è il 63% della popolazione dall'inizio della pandemia. Ora, dopo un anno di arresti, licenziamenti, tagli ai salari e repressione sindacale provocate dalle misure anti Covid-19, decine di migliaia di lavoratori tessili sono stati incoraggiati nelle ultime settimane alla disobbedienza civile, perché il colpo di Stato minaccia sia la loro libertà e sia il settore di lavoro.
I proprietari di fabbriche, tuttavia, sono divisi tra consentire ai lavoratori di partecipare alle manifestazioni e affrontare l'ira della polizia per aver permesso che si manifestasse. Molti temono che possano essere reintrodotte le sanzioni e che la crescente instabilità allontani i marchi internazionali importanti. Ma molti dirigenti sindacali del settore tessile hanno detto di essere disponibili a fare i sacrifici necessari per sconfiggere la dittatura militare, compresi i licenziamenti di massa che seguiranno alle possibili sanzioni.
Sebbene la maggior parte dei 700.000 lavoratori tessili del Myanmar non siano organizzati sindacalmente, i sindacati hanno svolto un ruolo significativo nel definire le loro condizioni di lavoro. Gli scioperi di massa e le richieste sindacali hanno portato all'istituzione di un salario minimo nel 2015. Lo scorso anno, mentre le conseguenze della pandemia riducevano gli ordini e le fabbriche licenziavano, diversi sindacati del settore tessile hanno denunciato la direzione della fabbrica per l'uso del Covid-19 come pretesto per sciogliere i sindacati e minacciare i dirigenti locali.
I marchi internazionali della moda che si approvvigionano dai mercati esteri spesso non impiegano direttamente i lavoratori, ma si affidano a fornitori di secondo e terzo livello, questo spiega il motivo per cui è difficile garantire i diritti dei lavoratori. Il 90% dei lavoratori tessili del paese sono donne. La maggior parte proviene da città piccole o villaggi rurali per trasferirsi a Yangon per trovare lavoro. Lavorano fino a 11 ore al giorno, per sei giorni alla settimana. La maggior parte vive in dormitori con altre lavoratrici del settore e invia parte del loro stipendio alle loro famiglie. È un modo di vivere che le ha lasciate particolarmente vulnerabili dall'inizio del colpo di Stato.
Shelley Marshall, professore associato presso il Business and Human Rights Center della RMIT University in Australia, ha dichiarato: "Soprattutto le lavoratrici tessili hanno molto da perdere". "Molte di loro vivono nei dormitori, lontane da casa, sono facili bersagli dei militari."
Mai Ei Ei Phyu, che guida un sindacato che conta circa 500 iscritte in una fabbrica di giacche per Adidas e BSK, marchio di proprietà Inditex, si è nascosta dopo che la polizia è andata a cercarla nel suo dormitorio. Ha detto di essere orgogliosa del ruolo guida assunto dai sindacati del settore tessile nei primi giorni della lotta e del ruolo delle giovani lavoratrici tessili.
"Siamo state importanti perché abbiamo iniziato le proteste e siamo scese subito in strada dando il buon esempio ad altri in tutto il paese". "Le persone sono orgogliose di noi. Faccio questo per mio figlio, mia figlia e la prossima generazione, in modo che non debbano vivere in una situazione difficile sotto una dittatura come ho fatto io quando avevo la loro età.
Per Moe Sandar Myint, le sfide che l’attendono sono grandi. Decine di richieste provenienti da lavoratori tessili che sono stati licenziati o hanno visto ridursi gli stipendi, hanno messo sotto pressione i sindacalisti già provati. La giunta militare ha costantemente intensificato l’uso della forza, usando gas lacrimogeni, idranti, proiettili di gomma e proiettili veri nelle manifestazioni in tutto il paese. Vedere morire i manifestanti, soprattutto manifestanti giovani, è stato straziante per lei. Ha detto: "Più vedo sofferenza, più voglio combattere, anche a rischio di morire". "Questo potrebbe aver fine con la mia morte, ma ora non mi fermerò."
Per leggere l'articolo originale: 'We can’t accept this': Myanmar’s garment workers lead charge against the coup