PHOTO
Non deve essere stato facile per Meloni leggere i dati diffusi dall’Istat sulla povertà e quelli resi noti dall’Inps sulla perdita di potere di acquisto, contrappuntati dalle parole del capo dello Stato Mattarella su salari e precarietà. O può anche essere che la presidente del Consiglio preferisca la sua narrazione ai dati di realtà e le parole del Presidente non abbia avuto il tempo di ascoltarle. Restano i numeri e restano le frasi pronunciate.
I numeri non mentono
È aumentata la povertà relativa e assoluta, ed è aumentata ancor di più la povertà delle famiglie in cui l’adulto di riferimento è un operaio o un lavoratore assimilabile. Attesta l’Istat nel sul Rapporto annuale sulla povertà in Italia che nel 2023, secondo anno di governo Meloni, l’incidenza di povertà tra le famiglie con persona di riferimento operaio e assimilato è pari al 16,5%, in crescita rispetto al 14,7% del 2022, “raggiungendo il valore più elevato della serie dal 2014”. Lo stesso Istituto nazionale di statistica racconta che nel medesimo anno si contano 419mila occupati e occupate in più rispetto a quello precedente.
Non solo, per l’Istat la povertà assoluta tra “le famiglie con persona ritirata dal lavoro mostrano valori stabili (5,7%) dopo la crescita del 2022, mentre si confermano invece i valori più elevati per le famiglie con p.r. in cerca di occupazione (20,7%)”. Insomma solo poco più di 4 punti percentuale di incidenza della povertà assoluta separa le famiglie con persona di riferimento in cerca di lavoro da quelle operaie.
Tanto lavoro poco salario?
Perché nell’anno record per numero di posti di lavoro creati aumenta la povertà tra chi un lavoro ce l’ha e rimane stabile tra chi un lavoro lo cerca? Le risposte arrivano proprio da Istat e Inps, ma bisogna avere l’umiltà di leggerli con occhiali neutri, non con quelli offuscati dalle lenti della propaganda. E poi occorre saper “mettere insieme i pezzi”. Cominciamo con ordine.
Il potere di acquisto
Afferma l’Inps nel XXIII Rapporto annuale che a fronte di un aumento dell’occupazione “non è corrisposto un incremento dei redditi e delle retribuzioni tale da compensare pienamente la perdita di potere d’acquisto conseguente alla recrudescenza del fenomeno inflattivo”. E già perché mentre l’inflazione viaggiava abbondantemente a doppia cifra arrivando a superare il 17%, sempre secondo l’Istituto, salari e stipendi sono aumentati del 6,8% lordo. Piccola notazione, come si sa l’inflazione ha un’incidenza maggiore proprio sui redditi più bassi, quelli da lavoro dipendente e pensioni.
Il costo dell’inflazione
Parlando dal palco di Piazza del Popolo a Roma davanti a migliaia di lavoratrici e lavoratori pubblici a cui il governo vorrebbe rinnovare il contratto con il 5,78% di aumento a fronte di un’inflazione ben oltre il 17%, il segretario generale della Cgil Maurizio Landini ha ricordato che quella che ha attraversato l’Europa è un’inflazione da profitti non da dinamica salari-prezzi. Il che significa che rendite e imprese se ne sono giovate “lucrando” sul lavoro e su chi quei profitti produce con la propria fatica.
Che lavoratori sono
Se questa della perdita del potere di acquisto dei salari è la prima ragione dell’impoverimento delle famiglie dei lavoratori e delle lavoratrici dipendenti, la seconda risiede nel modo in cui si leggono i dati del mercato del lavoro. Ci ricorda la sociologa statistica Linda Laura Sabbadini “che se guardiamo agli occupati in più del 2023, ci accorgiamo che la stragrande maggioranza erano ultracinquantenni, segmento meno a rischio di povertà assoluta dei giovani, che invece non hanno ancora raggiunto i tassi di occupazione precedenti alla crisi del 2008-2009”.
Boom del lavoro povero
Precario, part time, femminile, giovanile. Questo è il lavoro creato e incentivato dal governo Meloni. Sono oltre 4 milioni di donne e uomini che lavorano e ogni anno portano a casa meno di 12mila euro lordi. È lavoro povero perché la paga oraria è bassa, o perché le ore lavorate sono poche, davvero troppo poche. Ma Meloni non solo ha fatto e continua a fare una guerra senza quartiere al salario minimo legale, ma con il Collegato lavoro vuole introdurre un’ulteriore liberalizzazione e incentivazione della precarietà. E per di più, per quel che è dato sapere, nella prossima manovra non ci saranno nemmeno le risorse sufficienti per il rinnovo del contratto dei dipendenti pubblici.
Povertà, aumenta al Nord stabile al Sud
A conferma di quanto fin qui abbiamo illustrato arriva ancora l’Istat che attesta come l’incidenza della povertà assoluta nelle regioni meridionali sia la più alta del Paese ma è stabile, il 12% contro il 9,1 del Nord Ovest e l’8,6 del Nord Est, mentre nelle regioni settentrionale i poveri aumentano passando da 2 milioni e 298mila a 2 milioni e 413mila. Il settentrione è proprio quella zona a maggior incidenza di occupazione, che quindi sconta di più sia la perdita di potere di acquisto di salari e pensioni, sia la maggior quantità di lavoro povero.
L’allarme di Mattarella
“L’occupazione, non soltanto nel nostro Paese – ha affermato il capo dello Stato durante la cerimonia di consegna delle Stelle al merito del lavoro – si sta frammentando, con una fascia alta, in cui a qualità e professionalità corrispondono buone retribuzioni, mentre più in basso si creano sacche di salari insufficienti, alimentati anche da part-time involontari e da precarietà. Si tratta di elementi preoccupanti di lacerazione della coesione sociale”.
Non foss’altro che per il fatto che il presidente della Repubblica è il garante della Costituzione che sancisce che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, e che all’art. 36 afferma: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”. Mattarella andrebbe ascoltato.
Gabrielli (Cgil): “Manca la qualità del lavoro”
“La fotografia del Paese conferma la necessità di un cambio radicale delle politiche del lavoro”. Così Maria Grazia Gabrielli, segretaria nazionale della Cgil commenta il Rapporto dell’Istat, e aggiunge: “Le tante forme di discontinuità lavorativa e orari ridotti legati al part-time involontario generano quel lavoro povero che continua a negare prospettive e opportunità alle persone a partire proprio dai giovani, dalle donne e dalle persone con maggiori vulnerabilità. Se alla crescita dell’occupazione non corrisponde un aumento della qualità del lavoro significa che i provvedimenti e le misure intraprese sono sbagliate e non hanno scalfito precarietà e disuguaglianze che caratterizzano il mercato del lavoro. Come la persistente presenza di lavoro sfruttato, irregolare e nero, continua ad alimentare una economia del sommerso a danno del Paese che relega le persone alla povertà e all’insicurezza”.
Come sempre si tratta di scegliere quali sono le priorità, cosa fare per invertire la china del lavoro povero. Per la dirigente sindacale occorre “agire per rimuovere la povertà del lavoro necessita di azioni su più piani, dal tema dei salari al cancellare le forme contrattuali precarie ad investire realmente nelle politiche attive del lavoro. Le misure degli incentivi alle assunzioni, la continua liberalizzazione dei contratti precari e flessibili reiterati dal governo anche nel recente Collegato Lavoro non rispondo al bisogno di un lavoro stabile, sicuro, tutelato e dignitoso”.