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Le donne americane ottenevano il diritto di voto esattamente cento anni fa, con l’approvazione, il 18 agosto 1920, del XIX emendamento della Costituzione americana che introduceva il suffragio universale (il governo federale proclamerà l’emendamento inserito nella Costituzione il successivo 26 agosto). “Il diritto di voto dei cittadini degli Stati Uniti - recita l’articolo - non potrà essere negato o disconosciuto dagli Stati Uniti o da uno degli Stati a motivo del sesso”.
Il diritto di voto alle donne sarà introdotto nella legislazione internazionale nel 1948 quando le Nazioni Unite adotteranno la Dichiarazione universale dei diritti umani. Come stabilito dall’articolo 21: “Chiunque ha il diritto di prendere parte al governo del proprio paese, direttamente o attraverso rappresentanti liberamente scelti. La volontà del popolo dovrà costituire la base dell’autorità di governo; questa sarà espressa mediante elezioni periodiche e genuine che si svolgeranno a suffragio universale e paritario e che saranno tenute mediante voto segreto o mediante procedure libere di voto equivalenti”.
Il suffragio femminile sarà anche esplicitamente considerato un diritto dalla Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna, adottata dalle Nazioni Unite nel 1979 e sottoscritta da 189 nazioni. Ma quali furono i primi Paesi ad introdurre il suffragio universale? Il primo passo per il voto alle donne viene fatto in Nuova Zelanda nel 1893, poi nel 1907 in Finlandia e nel 1917 in Russia. Per il Regno Unito bisognerà aspettare il 1928. Nel 1932 il suffragio femminile arriva in Brasile, nel 1934 in Turchia e nel 1944 in Francia. In Cina e India nel 1949, in Messico nel 1953.
E in Italia? A differenza di molti altri stati, in Italia il suffragio femminile non sarà introdotto dopo la prima guerra mondiale. Dichiarava Benito Mussolini in un’intervista a Le Journal il 12 novembre 1922: “C’è chi dice che intendo limitare il diritto di voto. No! Ogni cittadino manterrà il suo diritto di voto per il parlamento di Roma … Consentitemi anche di ammettere che non credo estendere il diritto di voto alle donne. Sarebbe inutile. Il mio sangue si oppone a tutti i tipi di femminismo quando si tratta di donne che partecipano alle questioni statali. Certo, una donna non dovrebbe essere una schiava, ma se le do il diritto di voto, sarei ridicolo. Nel nostro stato, non dovrebbe essere considerata”.
In parte contraddicendo il suo capo, il 22 novembre 1925 il fascismo faceva entrare in vigore la legge n. 2125 (nota come “il voto delle signore”) che per la prima volta rendeva le italiane elettrici in ambito amministrativo. Questa legge fu però resa inutile dalla riforma podestarile entrata in vigore pochi mesi dopo e precisamente in data 4 febbraio 1926: così ogni elettorato amministrativo locale veniva annullato, si sostituiva al sindaco il podestà che insieme ai consiglieri comunali non era eletto dal popolo, ma dal governo. Bisognerà attendere la fine della parentesi fascista ed il ritorno della democrazia perché l’elettorato sia riconosciuto anche alle donne.
Un decreto del 1945 (decreto legislativo luogotenenziale 1 febbraio 1945 n. 23) concede alle maggiorenni di 21 anni il diritto di voto attivo, mentre un decreto del 1946 concede alle donne maggiori di 25 anni il diritto di voto passivo (decreto legislativo luogotenenziale 10 marzo 1946, n. 74). Le uniche a essere escluse dal diritto di voto attivo sono le donne citate nell’articolo 354 del regolamento per l’esecuzione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza cioè le prostitute schedate che lavorano al di fuori delle case dove è loro concesso esercitare la professione.
Punto di arrivo di un percorso lungo e tortuoso, il riconoscimento del diritto di voto alle donne in Italia prende le mosse dallo Statuto Albertino (Costituzione adottata dal Regno di Sardegna il 4 marzo 1848 a Torino), che all’articolo 24 recitava: “Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili e militari, salve le eccezioni determinate dalle leggi”. Una di queste eccezioni riguardava le donne, anche se non in modo esplicito.
Nel 1877, Anna Maria Mozzoni presenta al governo la prima di una lunga serie di petizioni per il voto politico alle donne che sarà bocciata, nello stesso momento le donne che ne hanno i requisiti prescritti dalla legge cominciano ad essere iscritte nelle liste elettorali (nel 1867 il deputato Salvatore Morelli presentava un primo disegno di legge per consentire il voto alle donne dal titolo ‘Abolizione della schiavitù domestica con la reintegrazione giuridica della donna, accordando alla donna i diritti civili e politici’. La proposta, respinta con voto della Camera dei deputati, sarà ripresentata nel 1875).
“Ora - dirà la Mozzoni - questa massa di cittadini che ha diritti e doveri, bisogni ed interessi, censo e capacità, non ha presso il corpo legislativo nessuna legale rappresentanza, sicché l’eco della sua vita non vi penetra che di straforo e vi è ascoltata a malapena.… trovandoci noi donne, perciò, al giorno d’oggi, alla eguale portata intellettuale di una quantità di elettori uomini che il legislatore dichiara capaci, stimiamo che nulla costi acché venga a noi pure accordato il voto politico, senza del quale i nostri interessi non sono tutelati ed i nostri bisogni rimangono ignoti”.
Intanto le Corti di appello cominciano a trovarsi nella condizione di dover bocciare il riconoscimento dell’elettorato politico alle donne che alcune Commissioni elettorali provinciali accolgono (la Corte di appello di Ancona presieduta da Lodovico Mortara sarà l’unica ad accogliere nel 1906 la richiesta di inclusione delle donne nelle liste elettorali presentata da nove maestre di Senigallia e da una di Montemarciano. Al terzo e definitivo grado di giudizio la sentenza sarà comunque rovesciata). Così la Corte di appello di Firenze giustificherà il respingimento della richiesta: “Potrebbe avvenire che una maggioranza di donne venisse a formarsi in Parlamento, che coalizzandosi contro il sesso maschile, obbligasse il Capo dello Stato, scrupoloso osservatore delle buone norme costituzionali, a scegliere nel suo seno i consiglieri della Corona, e dare così al mondo civile il nuovo e bizzarro spettacolo di un governo di donne, con quanto prestigio e utilità del nostro paese è facile ad ognuno immaginarsi”.
Anche Argentina Altobelli prenderà posizione su La Squilla a favore del voto alle donne, da conquistarsi “non per le viottole contorte delle distinzioni e dei privilegi, ma per la gran via maestra del suffragio universale concesso a tutti, senza tener conto del sesso, delle condizioni, e anche agli analfabeti” (nel 1904 era stato costituito il Consiglio delle donne italiane, aderente all’International Council of Women. Il Consiglio aveva organizzerà a Roma, in Campidoglio, nel 1908 il primo Congresso delle donne italiane, inaugurato dalla Regina Elena. L’obiettivo è quello di estendere il diritto di voto delle donne della classi più elevate).
Nel maggio del 1912 durante la discussione del progetto di legge della riforma elettorale, che avrebbe esteso il voto anche agli analfabeti maschi, i deputati Giuseppe Mirabelli, Claudio Treves, Filippo Turati e Sidney Sonnino proporranno un emendamento per concedere il voto anche alle donne. Giolitti vi si opporrà strenuamente, definendolo un salto nel buio. La questione, rimandata all’esame di un'apposita commissione, sarà accantonata. Dopo la triste parentesi fascista, le prime elezioni politiche in Italia si svolgeranno nel giugno del 1946, quando la popolazione sarà chiamata a votare a favore del referendum istituzionale monarchia-repubblica e per eleggere l’Assemblea costituente. Ma in realtà già qualche mese prima, alcune donne erano andate alle urne per le amministrative comunali. In quell’occasione saranno elette le prime donne sindaco della nostra storia.
Le loro foto campeggiano nella Sala delle donne di Montecitorio, dove dal 2016 vengono ricordate attraverso fotografie le donne che hanno fatto parte delle istituzioni repubblicane. Ci sono i ritratti delle 21 costituenti; delle prime dieci sindache elette nel corso delle elezioni amministrative del ‘46; della prima presidente della Camera; della prima Ministra, Tina Anselmi; della prima Presidente di Regione, Anna Nenna D’Antonio. Nella sala ci sono ancora due specchi (nel 2016 gli specchi erano tre) per ricordare che in Italia non ci sono mai state donne che hanno avuto il ruolo di premier o presidente della Repubblica. Sotto gli specchi la scritta "Potresti essere tu la prima". Se non ora, quando?