Foto di Danilo Balducci / Sintesi

Tre anni fa la sanatoria sembrò una misura di giustizia sociale. Nel mondo paralizzato dal contagio agevolare la scelta di agevolare la regolarizzazione dei lavoratori stranieri fu considerata una decisione di buon senso per la nostra economia e per coloro ai quali era destinata e che pure costituivano una parte importante di chi mandava avanti il Paese in quel momento difficile. 

Tre anni dopo abbiamo fatto i conti con l'Inca, il patronato della Cgil, cui tanti si sono rivolti per presentare domanda. I conti, numeri alla mano e storie di vita vissuta. Per scoprire che, come spesso accade, si è trattato di un'altra occasione persa. C'è ancora chi aspetta una risposta a quella domanda. E non sono pochi. Parola di Valeria De Amorim Pio, Inca nazionale, che tanti casi li ha seguiti personalmente e ci svela retroscena strazianti di chi è finito nel limbo senza fine della burocrazia. "Tre anni sono lunghi per coloro che hanno avuto parenti malati o lutti in famiglia e non hanno potuto lasciare i nostri confini per non gettare al vento l'occasione di poter regolarizzare la propria posizione". 

"Ricordo, in particolare, la vicenda di un ragazzo pakistano che, a due anni dalla presentazione della domanda di regolarizzazione, ha mancato il funerale del padre dopo un lungo periodo di malattia, per non perdere tutto il tempo già passato. Situazioni di varia umanità ci sono passate davanti durante il nostro lavoro di assistenza al patronato", ci ha raccontato Valeria De Amorim Pio per spiegarci cosa sia stata, per chi l'ha vissuta molto da vicino, questa sanatoria. I numeri non mentono. Su 207mila domande ce ne sono ancora oltre 70mila, il 31%, in attesa di una risposta. Un vero e proprio calvario per chi non ha idea dell'esito. A tre anni di distanza dall'emanazione del Dl n. 34 del 2020, uno dei tanti decreti legge varati in fretta e furia in quei giorni drammatici dal Governo Conte II con l'obiettivo, in questo caso, di lottare contro il lavoro irregolare e dare una chance a coloro che, in una posizione di totale fragilità, si ritrovavano in un mondo in piena emergenza pandemica e spesso, per il fatto di essere irregolari, avevano paura di rivolgersi al sistema sanitario in caso di necessità. Insomma, una misura di salute pubblica per tutelare i cittadini e di economia, per permettere alle aziende di assumere lavoratori regolari. Per chi fece domanda tra il primo giugno e il 20 agosto del 2020 la speranza era quella di ottenere finalmente il permesso di soggiorno.

Le situazioni più eclatanti? "Milano e Roma, senza dubbio - ci risponde Valeria De Amorim Pio -. A Milano su 23500 domande presentate, ad aprile del 2023, ne erano state lavorate appena il 50%. A Roma su 17371 domande e ne sono state lavorate circa il 72%. Solleciti e diffide presentate dal patronato non sono servite. Il vero problema è che ai comuni mancava il personale per lavorare in tempi accettabili tutte le pratiche relative alle tante domande presentate. Basti pensare che da gennaio ad aprile di quest'anno lo sportello unico per l'immigrazione di Roma ha dato solo 80 appuntamenti per l'emersione. Questo perché gli interinali che lavoravano su questo tema sono scaduti a dicembre senza ottenere un rinnovo".

La strategia giudiziaria

"I percorsi più strettamente giudiziari sono stati diversi - ci ha detto l'Avvocato Giulia Crescini che ha assistito chi si era rivolto all'Inca Cgil -. Abbiamo avuto un approccio che mirasse a risolvere il caso specifico. Di fronte a un silenzio, cioè a un percorso di emersione che dura più di 180 giorni, il primo passo è stato quello di costringere l'amministrazione a pronunciarsi. Non ci importava tanto l'esito, ma che ci fosse un esito. Anche un rigetto da impugnare successivamente. Perché abbiamo assistito a una paralisi dovuta a mancata valutazione delle pratiche, non dovuta alla mancanza di un requisito o di un documento. Ed effettivamente questa strategia ha pagato perché ha portato di fatto a una convocazione dei nostri assistiti".

"In realtà la lettura della pubblica amministrazione è stata spesso quella che i ritardi fossero da imputare alla mancanza di requisiti o documenti. Lettura mai confermata, anzi, smentita da due cause collettive a Roma e Milano che abbiamo intentato e che hanno ottenuto che gli interinali che seguivano queste pratiche fossero richiamati al lavoro. Altro obiettivo raggiunto è stato quello di aver ottenuto che fossero gli stessi interessati a fissare autonomamente un appuntamento per mandare avanti l'iter della domanda".