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La relazione inviata al Governo dalle commissioni di Camera e Senato sui fondi europei Next Generation Eu apre al loro utilizzo per il finanziamento dell'industria degli armamenti. La Rete Italiana pace e disarmo ha recentemente lanciato l'allarme, chiedendo al premier Mario Draghi un incontro urgente per discutere le proprie proposte e “ripensare all’economia in funzione della pace, della sicurezza, della sostenibilità e del benessere”. Ne abbiamo parlato con Sergio Bassoli, che della Rete pace e disarmo è coordinatore, e fa anche parte del Dipartimento politiche globali della Cgil nazionale.
E' possibile che per rialzare il Paese dopo la pandemia si debba necessariamente armarlo?
No. Al contrario bisogna rilanciare il Paese con una visione di sviluppo sostenibile, coerentemente con gli obiettivi dell’Agenda 2030, e ripensare a cosa produrre, come produrre. E' un criterio e una obbligazione per l’Italia, come pure per gli altri stati membri dell’Unione Europea. Non farlo è tradire lo spirito del programma Next Generation Eu, riprendere la strada sbagliata che ci ha portato fin qui, con crisi dopo crisi, diseguaglianze crescenti, guerre che riproducono arsenali militari, investimenti per migliorare le tecnologie e i mezzi militari per nuove guerre.
Le commissioni hanno ascoltato alcuni esponenti dell'industria delle armi, ma non quelli della società civile. Cosa vuol dire?
E’ un brutto segnale. Ci eravamo illusi di essere di fronte a un vero cambiamento. Pochi giorni dopo aver inviato al Presidente del consiglio incaricato il documento delle nostre 12 proposte, ricevemmo una telefonata da un funzionario del suo staff, che i ringraziava e ci informava che a breve saremmo stati contattati. Ma non ci fu alcun seguito, poi abbiamo appreso che governo e parlamento hanno sentito tanti soggetti, compreso l’Aiad (membro di Confindustria, in rappresentanza delle aziende italiane per l'aerospazio, la difesa e la sicurezza ndr), ma nessuna chiamata al movimento per la pace e per il disarmo. Non voglio interpretare nulla, lasciamo la porta aperta e il telefono libero, in attesa di essere ricevuti ed ascoltati.
Qual è il senso delle vostre 12 proposte?
Il senso è quello di inserire all’interno dell’impianto del nuovo Piano nazionale di sviluppo criteri, obiettivi, indicatori e progetti coerenti con i nostri principi e valori costituzionali, europei e del diritto internazionale. Ripensare all’economia in funzione della pace, della sicurezza, della sostenibilità e del benessere per tutta l’umanità, intesa come soddisfazione ed accesso all’intero sistema dei diritti umani, politici, civili, sociali, economici e culturali, deve essere il nostro faro. Per fare ciò occorre rivedere le nostre priorità, cosa potenziare e cosa ridurre. Noi proponiamo di investire e potenziare la ricerca, gli investimenti per portare l’Italia ad essere un paese di punta nella riconversione dell’industria militare a quella civile, sostenibile e con diritti. Essere protagonisti di una transizione arcobaleno e non solo green, per usare uno slogan. Chiaro che questa scelta ha ripercussioni politiche internazionali, oltre che di riqualificazione degli investimenti e delle professionalità. Significa dire no alle richieste della Nato di portare al 2% la spesa militare, significa rivedere gli accordi e le relazioni commerciali con quei paesi che comprano armi in cambio di non essere disturbati nei loro affari interni e nell’azione bellica. Dobbiamo scegliere, come paese, da che parte stare. E per noi è chiaro che vogliamo stare dalla parte dell’Italia che promuove la pace, investe nella sicurezza attraverso la cooperazione, la solidarietà, l’accoglienza, la distribuzione della ricchezza, l’accesso universale alla salute, all’educazione,al lavoro con diritti.
Quella del disarmo, tra l'altro, è una battaglia che anche la Cgil ha intrapreso, come dimostra una risoluzione sul tema approvata al congresso di Bari del gennaio 2019. Il futuro del lavoro di qualità passa dunque anche attraverso la rinuncia alle armi?
Certo, dobbiamo ricordarci quanto scritto nel nostro statuto, che la Cgil “considera la pace tra i popoli bene supremo dell’umanità”, e che la nostra proposta di diritti del lavoro ha una chiara valenza ed un orizzonte universali. La nostra storia di sindacato confederale, solidale ed internazionalista indicano la strada e l’impegno del mondo del lavoro per la costruzione di una società che rifiuta la guerra e l’uso delle armi e della violenza, per risolvere i conflitti.
La riconversione dell'economia di guerra in economia di pace può esser una strada percorribile? Cosa bisogna fare?
Come scriviamo nelle proposte, partiamo dall’applicazione della Legge 185 del 1990. Diamo vita ad un’istanza che si occupi della ricerca, studio e progettazione di alternative sostenibile per riconvertire l’economia bellica in piani, programmi, progetti di economia civile, pulita, con diritti. Dobbiamo valorizzare il nostro patrimonio territoriale, di intelligenze, di professionalità, al servizio della collettività. Per la messa in sicurezza, per la sostituzione delle energie inquinanti e non rinnovabili, per ripensare al nostro modo di vivere le città e i trasporti. Dobbiamo rivedere gli accordi con i nostri partner del sud del Mediterraneo, non più come accordi per estrarre risorse primarie ed energetiche, ma per costruire insieme una grande area di convivenza, di benessere e di crescita non solo economica ma soprattutto democratica. Al centro ci devono essere il rispetto dei diritti umani, della giustizia sociale, della sostenbilità e del buon governo.
Sembra un sogno.
No, è tutto fattibile, realizzabile. Basta volerlo. E basta aprire gli occhi e pensare a cosa vogliamo lasciare in eredità alle prossime generazioni. La strada è tracciata.