Recita l’art. 1 della legge 9 febbraio 1963 n. 66: “La donna può accedere a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la Magistratura, nei vari ruoli, carriere e categorie, senza limitazione di mansioni e di svolgimento della carriera, salvi i requisiti stabiliti dalla legge”. È il punto di arrivo di percorso lungo e tortuoso, a tratti decisamente grottesco.

La via delle madri costituenti

Il 2 giugno 1946 in Italia si vota per il referendum istituzionale tra Monarchia o Repubblica e per eleggere l’Assemblea costituente. Le donne elette sono 21 su un totale di 556 deputati: 9 del Partito comunista, 9 della Democrazia cristiana, due del Partito socialista, una dell’Uomo Qualunque.

Provenienti da tutta la penisola, in maggioranza sposate (14 su 21) e con figli, giovani e dotate di titoli di studio (14 laureate), molte hanno preso parte alla Resistenza, pagando spesso personalmente e a caro prezzo le loro scelte, come Adele Bei, condannata nel 1934 dal Tribunale speciale a 18 anni di carcere per attività antifascista, Teresa Noce, messa in carcere e poi deportata, Rita Montagnana.

Pur tenendo conto delle istanze dei rispettivi partiti, le costituenti fecero spesso fronte comune sui temi dell’emancipazione femminile, per superare i tanti ostacoli che rendevano difficile la partecipazione delle donne alla vita politica e non solo. L’esempio forse più pregnante di questo lavoro è la formulazione dell’articolo 3 della Costituzione. Si deve a Lina Merlin l’introduzione della locuzione “di sesso” nell’elenco delle discriminazioni da superare ed è stata Teresa Mattei a volere la fondamentale aggiunta “di fatto” alla frase “limitando la libertà e l’uguaglianza dei cittadini”, nel comma sugli ostacoli di ordine economico e sociale da rimuovere per consentire lo “sviluppo della persona umana” e la partecipazione dei lavoratori alla vita del Paese (tra gli articoli della Costituzione nei quali ha inciso il lavoro delle parlamentari segnaliamo anche il 29, il 30, il 31, il 37, il 48 e il 51).

Maternità, salario, pari opportunità

Un altro tema fondamentale sarà il lavoro: tutela della maternità, parità dei salari, pari opportunità nell’accesso a tutte le professioni saranno gli argomenti maggiormente dibattuti.

Particolarmente accesa fu la discussione relativa all’accesso in magistratura, per la quale le donne erano ritenute troppo emotive e sensibili (“La donna - affermava l’onorevole Molè nella seduta del 20 settembre 1946 - deve rimanere la regina della casa, più si allontana dalla famiglia più questa si sgretola. Con tutto il rispetto per la capacità intellettiva della donna, ho l’impressione che essa non sia indicata per la difficile arte del giudicare. Questa richiede grande equilibrio e alle volte l’equilibrio difetta per ragioni anche fisiologiche”1).

La scelta delle costituenti di mettere ai voti un doppio emendamento riuscì a garantire il risultato che le donne volevano raggiungere: bocciato l’emendamento Rossi-Mattei (120 voti su 153) che dichiarava esplicitamente il diritto femminile di accesso a tutti i gradi della magistratura, passò quello della Federici, che sopprimeva la parte limitante dell’articolo in discussione.

La conquista dell'accesso alla Magistratura

Ci vorranno, però, ancora quindici anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione e ben 16 concorsi per uditore giudiziario, con un totale di 3127 vincitori, dai quali le donne erano state indebitamente escluse, per avere, nel 1963, l’affermazione del principio di uguaglianza fra i sessi nell’accesso in magistratura.

Il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne verrà bandito il 3 maggio 1963 e sarà vinto da otto donne, che entreranno in servizio il 5 aprile di due anni dopo: Letizia De Martino, Ada Lepore, Maria Gabriella Luccioli, Graziana Calcagno Pini, Raffaella D’Antonio, Annunziata Izzo, Giulia De Marco, Emilia Capelli.

 “Eravamo una stranezza - raccontava qualche anno fa Maria Gabriella Luccioli, una delle otto vincitrici - il nostro entrare in un mondo da sempre maschile2 ci faceva sentire sempre sotto esame. Le donne hanno cambiato il diritto: la diversa sensibilità, il linguaggio, il modo di gestire i rapporti umani, di interpretare la norma e darne concretezza hanno vivificato la giurisdizione. Nel farsi diritto vivente le donne hanno contribuito a profonde innovazioni nel campo del diritto di famiglia, della tutela dei soggetti deboli, del concetto di tollerabilità della convivenza matrimoniale, della attribuzione del cognome dei figli, della ridefinizione del concetto di violenza”.


1 “La donna - sosteneva Eutimio Ranelletti qualche anno dopo - (…) è fatua, è leggera, è superficiale, emotiva, passionale, impulsiva, testardetta anzichenò, approssimativa sempre, negata quasi sempre alla logica, dominata dal pietismo, che non è la pietà; è quindi inadatta a valutare obiettivamente, serenamente, saggiamente, nella loro giusta portata, i delitti e i delinquenti”.

 

 Il magnanimo Giovanni Leone affermerà di non essere completamente contrario all’ingresso delle donne in magistratura ritenendo che esse avrebbero fatto un ottimo lavoro nei tribunali dei minori, grazie alla loro femminilità e sensibilità. “Negli alti gradi della magistratura - però - dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possano mantenere quell'equilibrio di preparazione che più corrisponde, per tradizione a queste funzioni”.