Nei casi migliori si tratta di lavoro 'grigio', con giornate non conteggiate, contratti capestro e pratiche previdenziali al limite della legalità. Nei peggiori, invece, è vero e proprio lavoro nero sotto caporale, col solito corollario di violenze e molestie, di baracche affollate e malsane. In ogni caso, a farla da padrone sono sempre paghe da fame e niente diritti. Nelle campagne italiane, nella filiera agroalimentare, i braccianti continuano a essere sfruttati. E le vittime predestinate sono quasi sempre migranti, piegati sul terreno e sotto la spada di Damocle del permesso di soggiorno. Ogni tanto, però, qualcuno si ribella. E si rivolge al sindacato, alla Flai, per rivendicare i propri diritti.

“Non sono casi isolati - ci racconta Francesco Carchedi, sociologo, docente alla Sapienza di Roma, uno degli autori del V Rapporto Agromafie e caporalato a cura dell’Osservatorio Rizzotto della Flai -. C'è una parte crescente di lavoratori che ha il coraggio di denunciare, anche se molto spesso la denuncia è un passaggio difficile. Perché comunque un lavoro, seppur svolto in condizioni indecenti, rappresenta comunque una fonte di reddito per tutta la famiglia di un bracciante. Sono persone disperate, ma che devono comunque continuare a lavorare per mantenere i famigliari, magari nel paese di origine”.

L'aumento dei casi di denuncia da parte dei braccianti, però, è senza dubbio uno degli effetti positivi della legge 199 del 2016. Per Carchedi è “uno dei capitolati della norma che sta funzionando meglio”, insieme al rapporto tra lo Stato e le regioni. “Meno applicata è la rete agricola del lavoro di qualità, il cui meccanismo rimane ancora troppo farraginoso”.

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La maggiore repressione dello sfruttamento nei campi, però, sta funzionando. Ne è convinto anche Roberto Conte, avvocato che per conto della Flai cura gli interessi dei braccianti: “Le ipotesi di reato, di solito, sono molte - racconta -. Da un lato ci sono le cause civili poste di fronte al tribunale del lavoro. Dall'altra le sanzioni penali, per i reati di caporalato. La legge 199, in questo, è importantissima perché ci ha dato uno strumento per colpire i datori di lavoro che sfruttano, introducendo un nuovo articolo nel codice di procedura penale”.

Lo strumento insomma oggi c'è, ma il più delle volte non è comunque semplice arrivare a una sentenza di condanna. “Purtroppo - spiega ancora Conte - all'interno dei tribunali troviamo delle resistenze. Molto spesso i giudici, soprattutto per quanto riguarda i reati penali, hanno difficoltà nell'accertare oltre ogni ragionevole dubbio la colpevolezza del datore di lavoro. Arrivare a una condanna nei giudizi penali è quindi complicato, anche perché trovare appoggio sulle testimonianze dei lavoratori è complesso. “Perché il caporalato attecchisce soprattutto quando i lavoratori sono più vulnerabili – conclude Carchedi -. E molto spesso si tratta di migranti, costantemente sotto la pressione di leggi inique come l'articolo 5 della legge Bossi-Fini, che prevede la correlazione tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro. Molti lavoratori stranieri pur di avere il permesso accettano qualsiasi condizione. Quindi solo la rimozione di quell'articolo potrebbe dare un contributo decisivo nella direzione più auspicabile per tutti”.