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Anywhere Anytime non è solo un film su un ragazzo nero che fa il rider a Torino. È una rapida successione di eventi disperati che raccontano come la vita possa cambiare in un secondo, come le scelte sbagliate possano essere la conseguenza di percorsi dolorosi. È un film sul lavoro, sulla povertà, sulle migrazioni. Ma anche sull’immensa solitudine e su cosa si è capaci di fare per sopravvivere. Diretto da Milad Tangshir, che lo ha scritto insieme a Giaime Alonge e Daniele Gaglianone, è stato presentato all’ultima Mostra del Cinema di Venezia. Il regista iraniano, che vive a Torino da molto tempo, è al suo esordio nel cinema di finzione, dopo aver diretto diversi documentari.
Milad Tangshir, come avete lavorato alla scrittura del film?
Nel 2018 ho cominciato a interessarmi al fenomeno dei riders, qui a Torino ce ne sono moltissimi. Persone che fanno questo mestiere arrivate “all’ultima spiaggia”. Per un’estate intera ho seguito un rider senegalese nel corso delle sue giornate: consegne, attese, ristoranti, la strada. Mi sono subito reso conto dell'importanza che aveva per lui la bicicletta: per lui voleva dire sopravvivenza. E allora mi è venuto in mente il capolavoro di De Sica, Ladri di biciclette. Non volevo fare un remake, ma prendere quel pezzo di cultura italiana e usarlo come fonte di ispirazione per far riflettere gli italiani sulle condizioni in cui vivono e lavorano queste persone: 75 anni dopo quel film, una bicicletta può cambiare la vita di una persona. Volevo davvero accendere una luce su chi sono, oggi, i ladri di biciclette nelle nostre strade. Io vengo dal documentario, questo è il mio primo film di finzione e dunque sentivo l'esigenza di non scriverlo da solo. Giaime è stato mio professore a Torino, insegna sceneggiatura e aveva già lavorato con Daniele, un regista che stimo tantissimo e di cui condivido l’approccio emotivo e drammatico.
Pensando proprio ai film di Gaglianone, questa comunanza di intenti e di poetica è molto evidente. Il fatto che lei venga dal cinema del reale fa il resto, per dare vita a un film dove i personaggi sono più che vivi, sono autentici. In questo senso, sì, siamo di fronte a un film neorealista.
Questa osservazione mi fa davvero molto piacere. Quasi tutti gli attori sono non professionisti. Per il protagonista, Issa, ho fatto una ricerca lunga due anni, attraverso case famiglia, centri di accoglienza, dormitori, associazioni che lavorano con gli immigrati. Ho conosciuto tantissime persone, splendide e invisibili, che lavorano per aiutare e sostenere i migranti. Ibra fa il cuoco a Torino, e quando ci siamo conosciuti io avevo una mappa precisa del percorso che volevo intraprendere, ma tutto il resto è venuto da sé. Il film è stato al servizio di Ibra e degli altri (non) attori e non viceversa, perché la trama si è costruita anche grazie alle loro storie vere. Ibra è arrivato in Italia da solo quando aveva 14 anni, quindi come minore non accompagnato. Ha attraversato moltissime delle tappe che sono anche quelle del protagonista del film, Issa. C’era una profonda esperienza personale, una conoscenza diretta degli aspetti del personaggio che io volevo raccontare, e questo ha aiutato molto. Gli ho chiesto di tirare fuori le cose come si sentiva, a prescindere da quanto era scritto nella sceneggiatura. Tu cosa faresti? Tu come ti senti veramente?
Le emozioni di Ibra/Issa passano sul suo volto e le leggiamo tutte, guardando il film. Anche i lunghi silenzi sono le pause che permettono allo spettatore di entrare nella mente del protagonista.
Io non cercavo un attore, ma la persona giusta. Ibra è stato eccezionale, è presente in quasi tutte le inquadrature, il film è tutto sulle sue spalle. Mi sono affidato alla sensibilità sua e degli altri ragazzi. E lui con la sua verità, con il suo bagaglio di ricordi ed emozioni ha creato il personaggio.
Ci sono dei dialoghi molto intensi, anche se di poche parole, come quello con l’anziana signora che chiede aiuto a Issa per portare su la spesa e poi gli offre un caffè. Quella donna è l’emblema di un pezzo, ancora troppo minoritario, di italiani che vogliono ascoltare, capire, provare ad accogliere.
Sì, la signora ha 93 anni e ha una tabaccheria qua a Torino. Il dialogo tra loro lo abbiamo costruito a partire da tanti pezzetti non scritti che poi sono stati cuciti insieme. Non era un dialogo preparato, per cui molte cose che sono venute fuori sono state una sorpresa. Ibra rispondeva in maniera del tutto personale alle domande che la signora gli rivolgeva. E mi ha colpito il fatto che molte delle risposte date coincidessero con quelle che avrebbe dovuto dare il protagonista, Issa. Inoltre, per quanto il fulcro della storia ruotasse intorno alla bicicletta, avevo in testa quest’idea di fare una sorta di “pausa”, un momento narrativo che non riguardasse strettamente quel viaggio. Mi piace l’idea che a un certo punto del film tutto si fermi, a favore di questo momento di umanità condivisa. Due sconosciuti che si incontrano, la prima volta che Issa entra nella casa di un italiano. Per lui è un piccolo mondo completamente nuovo.
La bicicletta è protagonista indiscussa del film, ma lo è anche il cellulare, l’altro strumento senza il quale un rider non può lavorare. Fa riflettere, se pensiamo alla norma inserita nell’ultimo ddl Sicurezza, secondo la quale l’acquisto di una sim telefonica dovrà essere subordinato al possesso del permesso di soggiorno. Se fosse successo a Issa, appena licenziato e senza documenti, non avrebbe mai potuto lavorare come rider, né trovare una via d’uscita.
Questo provvedimento è un ulteriore tentativo di maneggiare le vite degli invisibili, di spingerli sempre di più in una zona d’ombra, lontani da tutto, dalla famiglia in primis. E poi c’è il tema dell’identità, che per me anche nel film è centrale: Issa è un rider nero, questa cosa non è irrilevante, e dunque oggetto di un’indifferenza totale.
Il film ha uno snodo narrativo che richiede allo spettatore di assumere un punto di vista scomodo: il momento in cui porta sullo schermo la guerra
tra poveri, l’homo homini lupus, spingendo a riflettere sulla complessità di alcuni percorsi umani. Non è tutto nero o bianco, buoni o cattivi.Mi interessava inserire il tema del tradimento, perché non volevo cadere nel cliché dell’immigrato buono e vittima, o al contrario di quello cattivo e delinquente. Volevo fortemente uscire dalla retorica. A un certo punto il protagonista fa una scelta orribile, una scelta di sopravvivenza, ed è lì che diventa un essere umano a tutto tondo, con le sue luci e le sue ombre. I percorsi di vita delle persone non sono mai lineari. In passato ho girato un corto virtuale nel carcere di Torino, con cui siamo stati anche a Venezia e al Sundance Festival, e più della metà dei detenuti erano stranieri, alcuni dei quali raccontavano: “Sì, ho fatto un grande sbaglio, ma permettimi di raccontarti come ci sono arrivato”. Issa commette un errore, ma le conseguenze non avrebbero dovuto essere così orribili. Le cose che gli accadono in seguito sono smisurate, molto più grandi dell’errore che ha commesso. Il protagonista finisce in una catena di eventi che nel giro di un weekend gli cambieranno per sempre la vita.
Infine Torino, la città. Possiamo dire che nel film non sia soltanto il set in cui si sviluppa la trama, ma anche un altro protagonista vero e proprio?
Il film si regge principalmente proprio sul rapporto tra lo sguardo di Issa e il volto della città. Torino è abituata da sempre a essere filmata, per la sua bellezza ottocentesca, o per chi cerca degli scorci che somiglino a Roma o a Vienna. Noi, però, abbiamo girato in altri quartieri, ugualmente intensi e pieni di vita. Io volevo raccontare quest’altro lato di Torino. Allo stesso tempo, però, puntavo anche a un senso di anonimato, che rendesse questi luoghi il teatro di una storia che potrebbe accadere in qualunque altra città dell’Italia, del Belgio o della Francia. La storia di un ragazzo disgraziato che vuole sopravvivere, questo è Anywhere Anytime. La città è il teatro che contiene il ritmo della povertà, lo spazio in cui si sviluppa quella sfortunata catena di eventi. La città contiene quell’arco temporale, in cui era importante anche il racconto dell’attraversamento continuo dei luoghi, delle strade, il concetto del “vagare”.