Torna a Torino il Festival dell’accoglienza, un appuntamento nato da un’iniziativa della Pastorale dei migranti dell’Arcidiocesi di Torino nel 2020, anno in cui il Piemonte ha ospitato la 106ᵃ Giornata mondiale del migrante e del rifugiato. Un’occasione per mettere insieme istituzioni, terzo settore e cittadini per discutere di buone pratiche, nuove sfide e territori che siano sempre più inclusivi. Fino al 31 ottobre un nutrito calendario di incontri e di iniziative, come quella del 9 ottobre: la proiezione di Cutro, Calabria, Italia, l’ultimo documentario di Mimmo Calopresti. Il regista sarà ospite al Cinema Romano di Torino.
Calopresti, come e quando ha sentito che doveva andare a Cutro?
Sono andato Cutro poco dopo perché percepivo l’attenzione enorme che c’era su questa tragedia e soprattutto sul fatto che moltissime persone nel paese stavano cercando di dare una mano. Un mio amico aveva costruito una croce e la portava in giro, nelle chiese. I telegiornali continuavano a parlarne. Allora mi sono detto che forse rispetto a questo problema dei migranti fosse il caso di cominciare a occuparsene seriamente, soprattutto andando a cercare le storie di queste persone. Ho sentito che i numeri – come quelli sugli sbarchi - da soli non mi bastavano, dovevo ascoltare le storie. Volevo capire cosa fosse successo veramente, chi c’era su quella barca, e così sono partito, per andare su quella spiaggia, e farmi raccontare i fatti direttamente da coloro che li avevano vissuti. Avevo l’esigenza di capire davvero cosa stesse succedendo.
Ecco infatti uno dei punti chiave. Tra i momenti più commoventi del documentario, almeno dal mio punto di vista, ci sono proprio questi dialoghi con le persone del posto perché è davvero un racconto autentico. Non è un racconto filtrato dall'ufficialità ma fatto da chi stava lì e ha visto le cose: gli abitanti del posto che sono persone peraltro “abituate” alla necessità di accogliere.
Sì, assolutamente sì: la loro solidarietà. Ma c'era da aspettarselo dai calabresi, tutti hanno migranti in famiglia e una storia di immigrazione, sono sparsi per il mondo e continuano ad andare in giro. I ragazzi partono per studiare fuori e non tornano più. Questa volta, sulla spiaggia di Cutro, sono arrivati dei cadaveri, e trovarseli di fronte, trovare sulla spiaggia decine di bambini morti, ha lasciato un segno profondo nelle coscienze. Una cosa così non può non suscitare un moto di umanità, a prescindere dalle posizioni che prendiamo o da quello che pensiamo. In questi mesi sono tornato in Calabria per presentare il film nelle scuole, e le persone, questi ragazzi, continuano a chiedere cosa avrebbero potuto fare, cosa si potrebbe fare in situazioni simili, che poi vuol dire chiedersi, nell’immediato, cosa si possa fare per queste persone che si trovano in difficoltà. Piuttosto che scagliarsi contro i migranti, chiedersi perché sono qui, cosa li ha portati su una barca maledetta.
Quella della Calabria è una storia di emigrazione, ma anche di accoglienza. La vicenda di Cutro ha avuto un epilogo tragico, ma non può non far pensare a sbarchi “felici”, come quello di Riace o di Badolato, il paese fantasma ripopolato dai curdi, grazie alla tenacia del sindaco e dei cittadini. Erano gli anni novanta...
Mimmo Lucano aveva già capito tutto sucome bisogna affrontare questi problemi, cioè attraverso l’accoglienza. Soprattutto in una regione come la Calabria dove c'è un processo di spopolamento costante, le scuole vengono chiuse perché non ci sono abbastanza studenti e l'agricoltura viene abbandonata. L’accoglienza può essere un’occasione di rilancio, anche dell’economia. E invece a questo “povero Cristo”, come lo definisco io, è toccato un processo. Lui che è finito sulle copertine di tutti i giornali in tutto il mondo per aver recuperato e sostenuto le persone arrivate sulla costa calabrese. Lucano ha fatto qualcosa di eccezionale.
Eppure sembra che i morti non siano mai abbastanza. Per giorni ci impressionano le immagini dello steccato di Cutro, di una maglietta rossa, di una pagella inzuppata. Ma passata l’emozione iniziale, la vita torna a scorrere come se niente fosse.
Non so, io spero che un film serva proprio a fare questo: testimoniare, ricordare, impedire di dimenticare. A me non bastava sentirne parlare, ho avuto il bisogno di andare fino a lì, raccontare la storia delle persone che sono morte, ma anche e soprattutto di quelle che sono sopravvissute. Penso a chi veniva dalla Siria, dall’Afghanistan, o dall’Iran. Zone di guerra dove la libertà è ancora il bene più prezioso. Non c’è solo un problema economico, c’è la questione dei diritti umani. C’era una ragazza di 19 anni che arrivava dall'Afghanistan, e il cui unico “difetto” era che fosse una donna e che voleva studiare. E allora ha speso 5 mila euro per salire su una barca dove ha trovato la morte.
Tornando al modo in cui ha girato il documentario, lei ha scelto, come già in altri suoi lavori, di non stare dietro alla macchina da presa, ma davanti. Come cambia il modo di raccontare, di girare la storia, anche dal punto di vista emotivo?
Ogni tanto lo faccio, è per me un modo per mettermi in prima persona. Mettere i piedi su quella spiaggia, entrare nelle case delle persone, osservare quella croce, quei relitti, essere insieme alle persone. Sentivo che volevo essere testimone di quella tragedia. Come quando mi è capitato di andare in carcere a parlare con degli scafisti. Provare a stare nelle cose, cambiare il punto di vista, approcciarsi alla narrazione senza una tesi di partenza, ma soltanto con la voglia di capire.