Arriva al momento giusto il nuovo lavoro di Francesco Erbani, dal titolo Lo Stato dell’arte. Reportage tra vizi, virtù e gestione politica dei beni culturali (Manni editori, pp. 208, euro 16), un resoconto al solito puntuale dello scrittore e giornalista che ha già dedicato altri volumi al tema. Anche in questa occasione ci permette di fare i conti con dati e numeri precisi e dettagliati, attraverso i quali Erbani invita i suoi lettori a riflettere su argomenti che nel complesso restituiscono il quadro di una situazione preoccupante e fin troppo confusa, a partire dai sistemi di contrattualizzazione precaria per la maggior parte delle persone occupate in questo settore. Nel frattempo un ministro va, un altro arriva. Abbiamo rivolto alcune domande all’autore.

Iniziamo dove comincia il libro, un omaggio a Silvia Dell’Orso e Antonio Cederna, seguendo questa linea di studi e di passione per lo sviluppo e la tutela dei beni culturali in Italia.

Sì, il libro vuole anche ricordare due personalità che in maniera diversa hanno entrambi interpretato questo ruolo, Silvia Dell’Orso in una forma prettamente giornalistica, mentre il lavoro di Antonio Cederna è stato da militante e intellettuale. Chiaro che l’incidenza di Cederna, anche per la lunghissima attività, è ineguagliabile, ed è un’eredità difficile da raccogliere proprio per il suo modo di raccontare il paesaggio, le città, i beni culturali.

Lo Stato dell’arte è un’indagine dettagliata intorno al patrimonio culturale italiano, ma racconta anche di un progressivo smantellamento della nostra migliore tradizione. Penso alla descrizione della situazione dei centri storici in Italia…

Una situazione molto critica, anche se l’integrità fisica dei centri storici, rispetto al passato, salvo gravi eccezioni bene o male viene conservata. Nelle piccole, medie o grandi città il problema è quello dell’abbandono dei residenti, lo stravolgimento nei centri storici di quella composizione sociale che li ha sempre caratterizzati, e che dava valore al fatto di essere un bene culturale nel senso più ampio del termine. Si custodivano chiese e palazzi ma c’era anche la vita, un elemento che rischia di essere perduto per il fenomeno dell’abbandono, dalle grandi città ai piccoli centri dei versanti appenninici e in altre zone d’Italia, dove ora i centri storici somigliano sempre più a una quinta teatrale della turistificazione, cambiando la natura di chi lo vive. In città come Venezia, Firenze, Roma, le abitazioni sono divenute case-vacanze, i negozi sono spariti, affidati all’egemonia dell’economia turistica. Mentre prima c’era da combattere il “piccone demolitore”, come scriveva Cederna negli anni ’50, ora bisogna riportare il residente nei centri storici per farli tornare luoghi vitali, abitati.

C’è un capitolo del libro che viene dedicato agli “invisibili”, gli operatori del settore sfruttati da un sistema al limite del collasso per carenza di personale, e che abusa del lavoro precario…

Ormai da tempo se non ci fossero queste pattuglie di giovani e meno giovani lavoratori molti tra monumenti, biblioteche e aree archeologiche non funzionerebbero, non aprirebbero nemmeno, non ci sarebbero prestiti di libri... Un dramma che si trascina da tempo, e molto specifico rispetto al resto del mondo del precariato che affligge il mercato del lavoro. Perché qui si tratta di un personale molto molto qualificato, sul quale si è investito tantissimo nella formazione; giovani che si lasciano attrarre dal fascino e dalla passione per un museo, un archivio, salvo poi rendersi conto che il loro è un lavoro sfruttato, senza prospettive, senza alcuna garanzia riguardo la dignità dell’impegno profuso.

Quindi è il lavoro precario che sostiene il nostro patrimonio culturale?

Per molti versi è così. E non si può pensare che il nostro che, come dicono è il patrimonio più grande del mondo, venga affidato a persone con contratti di pochi mesi, chiamati la sera prima per fare assistenza, che prendono la macchina all’ultimo minuto per supportare uno scavo che sta a centinaia di chilometri di distanza. Così non c’è garanzia sulla qualità di questo lavoro, malgrado chi lo svolga sia altamente qualificato, ma con un contratto di due settimane. Ci troviamo così di fronte a una doppia contraddizione: la dignità del lavoro calpestata, e la tutela di un patrimonio che si serve di questo tipo di lavoro.

Nel libro si parla anche dello sfruttamento economico dei beni culturali, legato all’incontrollata pressione del turismo di massa. Qual è il rapporto tra beni culturali e turismo oggi?

Per arrivare a un punto estremo, possiamo dire che in molti casi il bene culturale ricava legittimazione dal fatto di essere oggetto di percezione turistica, e non possiamo che assistere con un certo sgomento a tutto questo. Nel libro cito il caso dei musei civici di Venezia, che nella fase finale della pandemia continuavano a essere chiusi perché il sindaco Brugnaro diceva che appunto, non essendoci turisti, era inutile tenere aperti i musei… Un abbinamento stretto, che non fa bene a nessuna delle due categorie, perché si nega il valore di cittadinanza che offrono i beni culturali, e i veneziani in questo modo vengono privati dei loro beni civici.

In effetti sembra un controsenso.

Ripeto, si tratta di un caso estremo, ma è vero che se andiamo a vedere i numeri ci accorgiamo che il grande aumento di visitatori registrato da anni è dovuto all’aumento del turismo e alla mobilità degli italiani nel Paese, anche se resta il problema che pochi cittadini italiani vanno a visitare i nostri musei. Una tra le ultime rilevazioni Istat dice che soltanto il 27%, meno di tre su dieci, è entrato almeno una volta in un museo nell’ultimo anno… E se noi concepiamo il bene culturale legittimandolo soltanto con l’affluenza dei turisti perdiamo la possibilità di riflettere su questo dato, che ne accompagna altri sulla cultura diffusa degli italiani. Oltre i musei ci sono i libri, i giornali, le competenze scolastiche, tutti numeri inferiori rispetto alla media europea, quindi anche i beni culturali diventano indicatori del livello culturale di un paese, che non si può mascherare dietro ai flussi turistici.

Le conclusioni provvisorie in coda al volume sembrano quasi profetiche, annunciando al lettore un prossimo libro che si concentri sul rapporto tra beni culturali e informazione. Viene evocata più volte Pompei, ben prima delle dimissioni di Sangiuliano…

La vicenda dell’ex ministro Sangiuliano fa guardare con sgomento al fatto che sia stata affidata alla responsabilità politica di un tale ministro un patrimonio di queste dimensioni. Il G7 a Pompei è ridotto a oggetto di scambio, l’area archeologica sembra un pallino con il quale ci si balocca, a prescindere da cosa contenga e cosa rappresenti. Da quanto emerso, si va a Pompei per pressione di un’influencer che condiziona le scelte di un ministro. Un punto a cui non mi pare fossimo mai arrivati.

Ora tocca a Giuli…

Sì, e vedremo quale sarà il suo operato. In questi giorni mi veniva in mente che ricordiamo ancora la stagione durante la quale al ministero della cultura venivano spediti gli esponenti socialdemocratici, non dando loro nessun altro dicastero ritenuto più importante: ma anche alcuni di quei ministri giganteggiavano rispetto al punto in cui siamo arrivati. L’immagine di un ministero che ha moltissimi problemi, dalla carenza di personale agli investimenti che mancano, e un ex-ministro che ha un immagine di questo tipo, lascia a dir poco perplessi.

Come immagina il G7 della Cultura, confermato e in programma tra pochi giorni?

Non so come verrà gestito il G7, come reagiranno i colleghi ministri della cultura alla nostra situazione, come si comporteranno, in che modo prenderanno questo Summit internazionale. Anche perché la sproporzione enorme tra l’inadeguatezza politica che siamo costretti a subire, e la grandezza del nostro patrimonio culturale, l’abbiamo misurata in maniera drammatica. E ridicola.