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Una premessa: la cosiddetta “notte degli Oscar” è un gioco e va preso come tale. Un gioco serio, certo, che da sempre esprime lo stato di Hollywood, la prima industria cinematografica mondiale, e per estensione lo stato del cinema oggi. Vincere o meno può essere fondamentale nel percorso di un film, lo iscrive nell'albo d’oro e nella storia, ma non vincere non è una tragedia: chiedete a Barbie di Greta Gerwig, il maggiore incasso della stagione, che è stato escluso sin dall'assegnazione delle nomination.
Fatte le debite proporzioni, ecco perché non è una sconfitta la non vittoria di Io Capitano di Matteo Garrone, candidato all'Oscar come migliore film internazionale (non si chiama più “straniero”). La statuetta è andata a La zona d’interesse, capolavoro di Jonathan Glazer, film definitivo sull’Olocausto visto dalla prospettiva del comandante di Auschwitz, Rudolf Hoss, senza mostrare mai l'interno del campo di sterminio. Era il favorito e anche il film più bello.
Abbiamo però visto sfilare all'Academy il cast di Matteo Garrone. C'erano lo stesso regista, naturalmente, insieme agli attori Seydou Sarr e Moustapha Fall, i ragazzi senegalesi che nel film interpretano i due giovani che lasciano Dakar per raggiungere l'Europa. Finiscono per sbarcare a Lampedusa, dopo una lunga odissea che passa per il deserto e le prigioni libiche coi loro torturatori. Per la prima volta i migranti sono arrivati a Hollywood, letteralmente, proprio a livello grafico: le dirette di tutto il mondo hanno ripreso il cast all'ingresso dell'Academy, il teatro che tradizionalmente ospita la cerimonia, ed è stata comunque una scena memorabile.
Tra l'altro Garrone, dall'inizio, ha espresso profonda gratitudine per la presenza nella cinquina spiegando che il film prosegue il suo percorso di diffusione, ragionando già a prescindere dal premio. Del resto anche un altro candidato pesante, Wim Wenders con Perfect Days, non ha vinto ma anche qui è solo una “non vittoria” piuttosto che una sconfitta.
È l'anno di Oppenhemeir di Christopher Nolan. Nessuna sorpresa: il film vince in tutte le categorie principali, ossia miglior film, miglior regia, attore protagonista (Cillian Murphy) e non protagonista (Robert Downey Jr.). D'altronde la platea dei votanti che assegnano gli Oscar è ormai così ampia e variegata – circa 10.500 persone – , da registi e attori fino a tutti i comparti tecnici, compresi i vincitori degli Oscar precedenti, che alla fine una massa tanto diversa finisce per amalgamarsi e produrre la scelta più prevedibile.
Da una parte quindi il risultato è scontato, dopo la vittoria di Nolan ai Golden Globes e in generale il dominio nella stagione dei premi. Dall'altra i molti riconoscimenti non intaccano la forza del film, oscuro e profondo, che inscena la complessa parabola del fisico che inventò la bomba atomica con tutte le sue ambiguità, che culminano nell'uso tragico a Hiroshima e Nagasaki.
Attenzione: non è certo un caso che la Mecca del cinema americano premi un film del genere oggi davanti a un mondo in guerra, con echi di conflitti da Gaza all’Ucraina. È un modo per mettere in guardia dal rischio di nuove atomiche e degenerazioni fatali che, come dice lo stesso Oppenheimer, possono portare anche alla fine del mondo.
Sul terreno narrativo, l’Academy manda un messaggio anche al cinema che verrà, non è più tempo di epica fantastica alla Signore degli anelli o musical in stile La La Land, sono tempi difficili e si torna sulla terra, bisogna guardare alla realtà anche per il blockbuster del futuro.
A proposito di guerra, è stata inevitabilmente centrale nella notte degli Oscar. A partire dal miglior documentario: 20 giorni a Mariupol di Mstyslav Chernov, che – come da titolo – nella forma del doc racconta i primi venti giorni dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin. La protesta degli attivisti per la Palestina ha ritardato l'ingresso degli invitati sul tappeto rosso, ottenendo il sostegno di molti attori e attrici, tra tutti Mark Ruffalo (“Ha vinto l'umanità!”).
Jonathan Glazer, autore de La zona d’interesse, nel discorso di ringraziamento è partito dall’orrore del nazismo per poi chiedere la pace in tutti i conflitti, citando allo stesso modo gli attacchi contro Israele l'assedio di Gaza. Anche Cillian Murphy, oscarizzato per Oppenheimer, dal palco ha gridato la necessità della pace.
Poi ci sono le donne. La migliore attrice è Emma Stone, indiscutibile nel ruolo di Bella in Povere creature! di Yorgos Lanthimos, che è anche un modo per riconoscere il film già Leone d'oro a Venezia e successo nelle sale. Nella sua Frankenstein al femminile, col percorso verso la presa di coscienza dell'essere donna, l'attrice e il suo personaggio diventano simbolo della libertà femminile.
Non meno importante è la scelta della migliore attrice non protagonista: l’attrice nera Da'Vine Joy Randolph che vince per The Holdovers di Alexander Payne, nel ruolo della segretaria di un college vuoto per Natale. Una grande prova, l'ennesimo riconoscimento per il cinema black che è esploso in questi anni.