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Un festival cinematografico si confronta sempre col proprio tempo. E se questo è un tempo problematico, pieno di conflitti e tensioni, allora è così che lo vedremo allo specchio del cinema. La guerra, il lavoro, i diritti, le lotte delle donne, l’avanzata delle destre e l’ombra di Trump: tutto questo è dentro il Festival di Venezia, edizione numero 81, che si svolge da oggi 28 agosto al 7 settembre 2024 nella classica cornice del Lido, la lingua di terra in mezzo alla laguna. Uno sfondo decadente che poco è cambiato nell’arco di ottant’anni, ed è una parte del suo fascino.
C’è tutto questo, si diceva, ma anche altro. Perché il cinema è spettacolo, soprattutto la Mostra diretta da Alberto Barbera che ormai da anni corteggia Hollywood e le grandi produzioni, ospitando i titoli Netflix che non passano per le sale (a Cannes sono banditi). Ecco dunque l’apertura, legittima, per un mito bipede della settima arte, Tim Burton che inaugura la kermesse con Beetlejuice Beetlejuice.
Ma molto di più e altro si vedrà nell’arco di dieci giorni, seguendo la competizione dei 21 film che corrono per il Leone d’oro, fino alla decisione finale di sabato 7 settembre: a prenderla sarà la presidente della giuria Isabelle Huppert, una delle più importanti attrici viventi, e comunque vada sarà difficile contestarla.
I film italiani in concorso sono cinque. Tra questi c’è Campo di battaglia di Gianni Amelio, decano del nostro cinema, con protagonista Alessandro Borghi per raccontare una pagina ancora poco conosciuta della nostra Storia: siamo nell’ultimo anno della prima guerra mondiale, tra la sconfitta di Caporetto e la pandemia di spagnola. Un Covid ante-litteram, più terribile, che servirà per inscenare un racconto sul valore della vita, l’orrore della guerra e della malattia.
L’altro film più attaule è Iddu di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza. Si torna forte sul tema della mafia: per la prima volta viene portato sullo schermo Matteo Messina Denaro, interpretato da Elio Germano, affiancato nel film da Toni Servillo. Vista la parabola del boss, con le polemiche seguite alla cattura, può dividere e chiamare il dibattito.
Come sempre, la competizione contiene nodi sociali provenienti da ogni parte del mondo. Per esempio il film georgiano April di Déa Kulumbegashvili che parla del diritto all’aborto, inscenando un’ostetrica che pratica interruzioni di gravidanza clandestine. La dittatura è al centro di I’m Still Here di Walter Salles, parabola di una donna che cerca il marito scomparso durante il regime militare in Brasile. Il cileno Pablo Larraín torna in laguna con Maria, altro grande affresco femminile, visto che il personaggio del titolo è Maria Callas incarnata da Angelina Jolie.
Il grande film sul lavoro in concorso si chiama Youth: Homecoming del cinese Wang Bing, maestro del documentario. È la terza parte di una trilogia: un’opera di 152 minuti sui lavoratori tessili di Zhili, che il regista ha seguito per anni immortalandoli in tutte le fasi della loro vita, all’insegna del capitalismo spietato. Qui i laboratori tessili iniziano a svuotarsi per le vacanze di Capodanno, gli operai organizzano il lungo e sfiancante viaggio di ritorno a casa.
Ma attenzione, ci sono tracce di lavoro ovunque. Uscendo dal concorso, nella sezione Settimana della Critica viene proiettato Anywhere Anytime di Milad Tangshir, storia di un migrante irregolare che trova lavoro come rider a Torino, ma il primo giorno gli rubano la bicicletta… Inutile aggiungere che il furto della bici, simbolo immortale del neorealismo italiano, assume qui un significato nuovo alla luce dell’oggi.
Poi c’è la non fiction, ovvero i documentari, altro pezzo forte della Mostra. Farà molto discutere Homegrow di Michael Premo, in cui il regista segue tre attivisti dell’estrema destra americana per capire davvero chi sono e cosa pensano (o non pensano), tre tipi che convogliano verso Capitol Hill… mostri del presente, che alla vigilia delle elezioni americane con lo spauracchio di Trump suonano particolarmente inquietanti. A tal proposito, la masterclass di Richard Gere che incontra il pubblico promette scintille, anche politiche, data la sua storica opposizione verso il tycoon.
Sul festival, infine, soffiano venti di guerra. Del resto non potrebbe essere altrimenti e molti film affrontano i conflitti in corso, quello in Ucraina e il dramma di Gaza. Fra i tanti ne segnaliamo due: Russians at War di Anastasia Trofimovia, documentario sui soldati russi costretti all’invasione ucraina su ordine di Putin. E un grande cineasta che accende la cinepresa sulla questione: Why War di Amos Gitai, israeliano di sinistra, con un titolo che parla da solo. È un dialogo filosofico tra Freud e Einstein sulla necessità di evitare la guerra. Ieri come oggi, speriamo non domani.
Foto: Campo di battaglia di Gianni Amelio, Youth di Wang Bing