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Carola Susani è una delle migliori scrittrici italiane, uno dei migliori scrittori del nostro Paese. Il suo ultimo romanzo, Terrapiena - secondo volume di una trilogia in cui l’autrice segue le peripezie di Italo Orlando e la storia recente della Sicilia e dell’Italia - è uscito in libreria durante il vortice del lockdown da Coronavirus. Il libro, per le sue oggettive qualità letterarie, ha superato una tempesta non immaginabile. Nel frattempo, però, è stata stravolta un’altra parte consistente della vita dell’autrice, quella che la impegna come docente di scrittura narrativa per la scuola di Minimum fax (anche suo editore) e per la Scuola del libro ideata da Marco Cassini di Sur, solo per citare le attività principali. Anche Susani, come centinaia di migliaia di persone, è entrata assieme ai suoi studenti nel dominio della didattica a distanza. Un lavoro svolto da remoto, online.
Due mesi di lezioni, ormai. Come è andata?
Prima dell'isolamento ci incontravamo in classe, a seconda dei corsi, dalle due alle tre volte a settimana. In genere tengo lezioni lunghe, di circa sei ore continuative, con piccole pause interne. A volte anche di sabato e di domenica. Oltre a questo c'era naturalmente il lavoro da casa, sia di contatto telefonico, sia di correzione dei testi. Quando è cominciato l'isolamento ho avuto un momento di panico. Non potevo più incontrare gli studenti. Gli strumenti che ero abituata a usare non c’erano più. Dopo un paio di settimane di sospensione, abbiamo ragionato assieme, nella pluralità di soggetti con i quali lavoro, in particolare Minimum fax, e abbiamo pensato di mantenere la struttura dei nostri corsi “di persona” anche online. Certo, un corso di sei ore a distanza è interessante, ma è faticoso. Dentro ci sono le esercitazioni, il contatto video… Con la Scuola del libro, invece, abbiamo sperimentato incontri a distanza di due ore quattro volte alla settimana. Tengo anche un altro corso con “Parole a Km 0”, più leggero, di un'ora e mezza.
Sembrerebbero carichi didattici “governabili”. Ma se uno li somma, e aggiunge la tecno-dimensione domestica, l’obbligo di apprendere e dominare nuovi strumenti di comunicazione digitale, il risultato potrebbe essere impegnativo...
La verità è che mi sono trovata abbastanza presto in una dimensione molto invasiva. Sono in video per parecchie ore. In più ho le riunioni e gli incontri in rete. La maggior parte del mio lavoro si è trasferita nella relazione via computer. È subito crollata qualsiasi divisione tra tempo del lavoro e “tempo di casa”. Ho provato a esercitare un qualche sistema di disconnessione, ma quello che in fondo è accaduto - e riguarda me e tutte le persone con le quali collaboro, persone che stimo e con le quali ho un ottimo rapporto professionale e umano, persone insomma con cui non ho alcun problema di lavoro - è che ci siamo messe in una condizione di autosfruttamento. È stato automatico. Abbiamo perduto il nostro tempo protetto.
Potrebbe fare un esempio concreto?
Abbiamo organizzato addirittura una lezione il Primo maggio! Lì ho capito che avevamo perso il senso del confine. Che tutte noi eravamo entrate in un flusso dove c'era solo lavoro. La dimensione del lavoro si era presa tutto. Ci siamo dette: “Porca miseria, stiamo lavorando il Primo maggio e non ce l’ha chiesto nessuno! Com’è possibile?”. E questo è accaduto senza che ci fosse un datore ostile, il che forse per paradosso ci ha portate a non proteggerci. Abbiamo iniziato a telefonarci in qualsiasi orario. Abbiamo dimenticato l’esistenza della domenica. Credo sia stata una condizione collettiva. Certo, è successo in un mondo che ha reagito bene, tutto sommato. In poche settimane il mondo della formazione di scrittura ha rimesso tutto in piedi. È stato importante. Abbiamo anche scoperto, con la didattica a distanza, uno strumento che prima non usavamo, e che ci consente di raggiungere studenti dovunque. Ma, ripeto, il passaggio digitale e la quarantena ci hanno impedito di tracciare dei limiti.
Quale fattore ha pesato di più? Il lockdown, con le inevitabili ansie. L'avere assunto una personalità tecnologica, continuamente reperibile, mai disconnessa. O la condizione materiale del suo lavoro, che è autonomo, e quindi privo delle protezioni del lavoro subordinato?
Hanno pesato tutti e tre i fattori. Ma ce n'è uno in più, ed è la paura. Pur trovandomi in una condizione di grandissimo privilegio, perché ho conservato il mio lavoro e l’ho potuto svolgere da casa, senza correre i rischi di tanti lavoratori “essenziali”, mi sono sentita costantemente inseguita. In fondo è un meccanismo classico del lavoro autonomo. Ma col lavoro a distanza si è rafforzato. La sensazione che, se non ci sei sempre, se non hai la testa sul pezzo, puoi perdere il lavoro, puoi rimanere indietro. E poi, tutto sommato, cosa ti costa rispondere a una telefonata?, sei chiusa in casa, non puoi uscire… e nel frattempo sale l'ansia che, se non lo fai, in qualche modo esci, ti rendi meno presente sul mercato, ti dimostri meno affidabile. È una percezione tutta interiore, ripeto, ma ha riguardato tutte noi in questo periodo.
È difficile separare la condizione soggettiva da quella oggettiva...
Il nostro è un lavoro che si fa sempre in solitario. Se riesci a farti pagare il giusto e in tempo, ne ricavi un godimento quasi fisico. Entri in una dimensione di gratitudine verso chi ti paga. È un meccanismo oscuro. Siamo tutte persone perbene e consapevoli. E ci vogliamo bene. Ma la condizione materiale è dominante. E succede che l’ovvietà di un diritto, essere pagate, si stravolga in riconoscenza.
In questi mesi cosa le è mancato di più?
Stare al mondo, camminare, prendere la metro, guardare gli altri... I tempi totalmente sottratti al senso del dovere: mi sono mancati moltissimo. Da quando sono in questa condizione, il senso del dovere mi perseguita.