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Inghilterra, 1968. Le operaie della Ford cuciono sedili nella fabbrica di Dagenham, nel cuore dell’Essex. Lo fanno nel dipartimento più disagiato della struttura: esposto agli agenti climatici (fa molto caldo oppure ci piove dentro), il loro posto di lavoro risale al 1920 e cade praticamente a pezzi. Su 55.000 dipendenti, le signore sono 187 e guadagnano circa la metà degli uomini. Un collega maschio, conversando con le lavoratrici, afferma candidamente: "Se fossimo noi in queste condizioni, avremmo già scioperato". Si apre così il film di Nigel Cole, presentato all’ultimo Festival di Roma e uscito in sala venerdì 3 dicembre. We want sex racconta la battaglia per la parità salariale tra uomini e donne nel Regno Unito, che fu raggiunta per legge nel 1970.
Il sasso dello stagno, ovvero il primo sciopero femminile, fu lanciato proprio dalle donne della Ford: queste proclamarono lo stato di agitazione e – malgrado lo scetticismo generale – incrociarono le braccia per la prima volta nella storia del movimento operaio britannico. La vertenza iniziò per migliorare le condizioni di lavoro della fabbrica, poi assunse carattere generale: le operaie chiedevano stessi salari per tutta l’Inghilterra. Incontrarono la resistenza di una parte del sindacato che, intimidito anche dall’azienda, preferiva concentrarsi su altre rivendicazioni (soprattutto quelle “maschili”) e considerava troppo estrema la pretesa di equiparare le buste paga.
Tra mille difficoltà e iniziative clamorose, tra cui la protesta sotto Westminster, riuscirono a catturare l’attenzione del governo laburista di Harold Wilson: in particolare, la loro causa fu appoggiata dal ministro del Lavoro, Barbara Castle, che aprì una trattativa e firmò un accordo con le operaie sfidando la Ford. La casa automobilistica, che minacciava di ritirare gli investimenti in territorio inglese, prima fu costretta a concedere alle lavoratrici il 92% della paga maschile, poi vide approvata la norma sulla parità. Dopo lo sciopero a oltranza di Dagenham, il percorso era ormai segnato. La legge diventò un modello per tutti gli Stati occidentali, compresa l’Italia, dove la parità retributiva arrivò nel 1977 con il primo ministro del Lavoro donna, Tina Anselmi.
Il regista inglese Nigel Cole, appassionato di storie femminili, sfoglia la pagina di storia in forma di commedia: il titolo originale è Made in Dugenham, come l’etichetta sui sedili assemblati dalle lavoratrici, ma anche come la conquista salariale che fu, appunto, "prodotta a Dagenham". In realtà, se la prima parte della pellicola è più apertamente ironica, la seconda registra una virata tragica con il suicidio del marito di una protagonista. Questo episodio è l’occasione per innalzare la tensione ideale del film, che mostra il contatto tra il movimento e le istituzioni – le donne incontrano il governo – e prepara il terreno per il lieto fine.
La narrazione segue il percorso della lavoratrice Rita O’Grady (una meravigliosa Sally Hawkins, volto nuovo dei film proletari) e la sua affermazione come leader della protesta; usando la commedia come metodo di alleggerimento, il bersaglio del cineasta colpisce le principali figure politiche e sociali dell’epoca. Il premier è raffigurato come la macchietta del nobile inglese, la ministra Castle sfodera un look tatcheriano “dalla parte del bene” (ovvero ispirata da una visione progressista), ma anche gli ambienti sindacali non sono risparmiati da un certo sarcasmo: particolarmente riuscite le scene delle trattative, in cui il sindacalista moderato tenta in tutti i modi di evitare lo sciopero e compiacere l’azienda.
Sulla stessa linea la lunga sequenza che racconta il congresso delle Trade Unions: votato a un’eccessiva e verbosa solennità, la riunione viene interrotta dalle lavoratrici che si fanno sentire senza giri di parole. Il film resta centrato sulla questione della parità, alternando la fiction a immagini di repertorio, ma sfiora altri grandi nodi di quegli anni: per esempio l’educazione repressiva e classista, con il maestro che maltratta gli alunni figli di operai, oppure – come detto – il ricordo della guerra che ha segnato il paese. Questo diventa l’occasione per costruire la metafora più potente: così come gli Alleati non si sono arresi e hanno sconfitto i nazisti, affrontando grandi sofferenze, allo stesso modo ora gli Stati devono lottare per vincere le proprie sfide interne. A cominciare dalla dignità delle persone sul posto di lavoro.