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Innovazione tecnologica e, soprattutto, tanti anni di crisi, ci hanno consegnato uno scenario inedito, anzi paradossale: le ore lavorate diminuiscono, ma il tempo di lavoro aumenta. Sembra una contraddizione, ma non è così, ed è tutto “merito” (o demerito) della connessione, cioè del tempo sempre più lungo in cui, magari senza star effettivamente lavorando, siamo a disposizione di una possibile chiamata del nostro datore di lavoro. “Il punto – spiega Alessio Gramolati, responsabile Industria 4.0 della Cgil – è che questo tempo di lavoro in cui siamo connessi oggi si considera legittimamente ‘proprietà’ dell’impresa. Non è contrattualizzato, non produce valore alcuna per il lavoratore. Ecco, questo non va bene”.
Anche perché questo tempo un valore ce lo ha, effettivamente…
Certamente. Se un lavoratore durante la sua prestazione decidesse di disconnettersi, l’organizzazione aziendale glielo impedirebbe e se lo stesso lavoratore continuasse su questa strada, questa scelta avrebbe effetti sul piano disciplinare. Quindi, ricapitolando, è del tutto evidente che la connessione ha un valore, solo che questo vantaggio va tutto all’impresa. Ed è per questo che in tutto il mondo è cominciato un dibattito importante nel quale si discute di come questa disponibilità vada contrattata.
E come ci si sta muovendo?
Gli approcci sono sostanzialmente due. Quelli che pensano che la regolazione debba avvenire per legge – cioè il modello francese – e quelli che puntano sulla contrattazione, come i tedeschi. Entrambi pongono un tema giusto, ma la nostra propensione, come è noto, è per la via negoziale. La Cgil nella recente Conferenza di programma che si è svolta a Milano ha ribadito che la connessione va, appunto, contrattata.
Quali sono secondo te i vantaggi di questo approccio?
Credo che l’approccio contrattuale consenta una maggiore flessibilità nell’affrontare situazioni molto diverse. Un conto, per dire, sono le lavorazioni a ciclo continuo, un altro le prestazioni lavorative legate a un’attività intellettuale. Ovviamente in comune c’è il dato di fondo fondamentale: il vantaggio deve essere equamente redistribuito.
Ci sono già esperienze di contrattazione di questo tipo in atto?
Sì, questa sensibilità sta cominciando a diffondersi. Naturalmente con delle differenze. Ad esempio, tra i lavoratori dell’assistenza o i trasfertisti il tema di come si contratta la reperibilità è tradizionale, in altri comparti meno. Insomma, c’è uno spazio enorme, milioni di lavoratori che, consapevolmente o meno, offrono la disponibilità ad essere sempre “collegati” senza che questo trovi ancora una risposta nella contrattazione. C’è quindi uno spazio enorme di azione per il sindacato, per una nuova politica degli orari.
Nella quale rientrano, naturalmente, anche tutti i casi in cui l’orario di lavoro diminuisce per scelta unilaterale delle aziende…
Esattamente, con la cassa integrazione, il lavoro precario, il part-time involontario le aziende hanno provato a resistere alla contrazione della loro attività dovuta alla crisi, riducendo le ore di lavoro e dunque le retribuzioni. Questo, insieme all’aumento della produttività generato dall’innovazione e a quello che si è detto sul tema della connessione, rende necessaria una più equa redistribuzione del tempo di lavoro. È chiaro che non è possibile farlo con le rigidità del passato – con orari settimanale o plurisettimanale uguali per tutti – ma certo questo tempo va negoziato. Anche per migliorare la qualità della vita delle persone.
Del resto ogni grande rivoluzione tecnologica ha comportato una modifica del tempo e degli spazi del lavoro.
La grande forza della seconda rivoluzione industriale è stata quella di favorire un forte incremento di produttività, ma anche di consentire una diversa organizzazione dell’esistenza delle persone a partire proprio dal tempo di vita e di lavoro. Non è un caso che l’obiettivo che unì i sindacati di tutto il mondo in una battaglia condivisa fu la riduzione dell’orario di lavoro e, in Europa, la costruzione di un sistema di Welfare State, che nasceva anche come risposta a una nuova domanda di tempo liberato. Per tornare all’oggi, credo che solo un grande compromesso sociale renderà possibile un’innovazione condivisa, vissuta come opportunità e non come rischio dai lavoratori e dai cittadini. Qualcosa comincia a muoversi: faccio notare che nel nuovo contratto della scuola è entrato per la prima volta il diritto alla disconnessione.